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Israele una piccola grande potenza

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Intervista di Luigi Tedeschi a Giacomo Gabellini, autore del libro “Israele una piccola grande potenza”, Arianna Editrice 2017

 

1) Nel sottotitolo del suo libro Israele viene definita “piccola grande potenza”. Concetto in cui si riassume una fondamentale contraddizione. E’ forse Israele uno stato troppo potente ed avanzato per poter essere considerato paritario rispetto agli altri paesi del Medio Oriente e nello stesso tempo territorialmente troppo ristretto e scarso di risorse per poter dominare la geopolitica mediorientale?
Direi proprio di sì. Le scarse dimensioni territoriali e la dinamica demografica negativa pongono dinnanzi allo Stato ebraico problemi molto seri, che a mio parere potrebbero verosimilmente minare la realizzazione del progetto sionista consistente nel creare una nazione interamente ebraica dal Mediterraneo al Giordano. D’altro canto, Israele beneficia del “lavoro sporco” svolto dalla Israel Lobby, il potentissimo gruppo di pressione composto da influenti professionisti ebrei attivi in una variegatissima gamma di settori sensibili (a partire dall’informazione) che lavorano senza sosta per indurre Congresso e Casa Bianca a condurre politiche favorevoli ad Israele. Elementi cruciali quali il pronto riconoscimento di Israele da parte di Harry Truman, l’acquisizione dell’arsenale atomico ottenuta sfidando apertamente gli ammonimenti di Kennedy (e trafugando materiale fissile dagli Stati Uniti), l’incredibile passività con cui l’amministrazione Johnson accolse l’attacco israeliano alla Uss Liberty, la mancata reazione di Washington a fronte della capillare e iper-aggressiva attività di spionaggio svolta da Israele in territorio statunitense, la degenerazione bellicista che ha mosso la strategia Usa in Medio Oriente dopo la fine della Guerra Fredda non possono essere spiegati senza tenere in debita considerazione il ruolo decisivo della Israel Lobby. Quest’ultima beneficia peraltro del legame di alleanza con la destra religiosa statunitense, che riunisce al proprio interno milioni di fedeli convinti che il secondo avvento del Messia possa realizzarsi soltanto una volta che gli ebrei della diaspora abbiano fatto ritorno alla “Terra Promessa”. In termini pratici, tale concezione si è realizzata sotto forma di appoggio incondizionato alle più oltranziste politiche di colonizzazione dei territori occupati e di repressione della popolazione araba implementate da Tel Aviv soprattutto a partire dai primi anni ’80. Non va inoltre sottovalutato l’apporto assicurato alla causa israeliana dai cosiddetti sayan, vale a dire centinaia di ebrei disseminati in giro per il mondo pronti a fornire pieno supporto alle operazioni all’estero condotte del Mossad. Una volta incasellate le tessere del mosaico, anche gli osservatori più equidistanti sono costretti a prendere atto della natura peculiarissima di questa nazione dotata di un potere tale da far invidia a un gran numero di Paesi, a partire da quelli europei.

2) La nascita di Israele, come lei scrive, “rappresenta un effetto collaterale delle strategie geopolitiche concepite dagli occidentali”. Infatti Israele fu costituita tramite migrazioni di popolazioni ebraiche europee in Palestina. Dal punto di vista geopolitico Israele è stata sempre considerata un avamposto dell’Occidente isolato e contrapposto ai paesi arabi filosovietici in tempi di guerra fredda. Tuttavia, le successive migrazioni, le perenni conflittualità mediorientali, il succedersi delle generazioni nate in Israele hanno profondamente trasformato la società israeliana. Israele ha dunque perduto la sua originaria cultura ed identità europea, essendo divenuta oggi un paese mediorientale ormai svincolato dall’Occidente?
Il flusso migratorio che ha maggiormente inciso sull’equilibri interni israeliani è indubbiamente quello composto da ebrei sovietici che raggiunsero la “terra promessa” in conformità all’accordo del 1987 tra Mikhail Gorbačëv e il presidente del Congresso Mondiale Ebraico Edgar Bronfman. All’epoca, la decisione di accogliere centinaia di migliaia di ashkenaziti (nonostante la grave crisi economica in cui versava il Paese) ed allocarli in Cisgiordania, lungo la Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est fu considerata come una mossa rivolta essenzialmente a sottrarre territori all’Anp, ma in realtà Tel Aviv mirava anche – e forse soprattutto – a compensare la crescita prorompente conseguita dalla componente sefardita-mediorientale. L’importazione massiccia di ashkenaziti rispondeva di fatto all’esigenza di “ri-europeizzare” Israele, così da consolidare l’identità nazionale forgiata dai “padri della patria”, quasi tutti ebrei originari dell’Europa orientale. Oggi la questione sta tornando a tenere banco, perché un numero sempre minore di ebrei residenti in Europa (e negli Stati Uniti) è disposto a trasferirsi in Israele, cosa che comporta inesorabilmente l’indebolimento dei legami culturali con l’Occidente e nella sostanziale alterazione dei capisaldi identitari su cui si è retto finora lo Stato ebraico.

 

3) Israele va assumendo gradualmente una forma di stato a base etnico-religiosa. Tale fenomeno induce a ritenere che il processo di radicalizzazione religiosa affermatosi in tutto il mondo islamico abbia investito anche Israele. Una società basata su valori fortemente identitari è destinata a chiudersi in sé stessa. Tale accentuato identitarismo non è potenzialmente generatore di nuove perenni conflittualità interne ed esterne?

 

Come ogni realtà, Israele non è assolutamente immune da processi che si verificano nell’ambiente circostante. La crescita di peso specifico registrata da movimenti estremisti come i Fedeli del Tempio, che mira alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme sulle rovine delle moschee Qubbat al-Sakhra e Al-Aqsa, o il Blocco dei Fedeli, che auspica l’applicazione letterale della legge ebraica (Halakhah) per ripulire la Palestina delle popolazioni arabe, è sintomo di una progressiva radicalizzazione del Paese, contro la quale hanno preso pubblicamente posizione personalità di spicco della politica, della cultura, dell’intelligence e delle stesse forze armate come Uri Avnery, Tamir Pardo, Yuval Diskin e Yair Golan solo per citarne disordinatamente alcuni. Costoro hanno duramente condannato la deriva estremista imboccata dal Paese negli ultimi tempi, ed evidenziato che, proseguendo su questa strada, le autorità finiranno per favorire lo scoppio di una guerra civile in Israele. A mio parere, tuttavia, è ingiusto ed anche “riduttivo” imputare l’intera responsabilità di tutto ciò al Likud di Netanyahu e a personaggi come Liebermann, perché l’estremizzazione degli ebrei residenti in Palestina è un fenomeno le cui origini vanno ricercate piuttosto indietro nel tempo, e rispetto al quale è incontestabile il coinvolgimento di personaggi oggi molto santificati dalla vulgata comune come Yitzhak Rabin e Shimon Peres. Quello che lo storico Ilan Pappe ha definito “la pulizia etnica della Palestina” è un progetto – non certo moderato – teorizzato nei primi decenni del XX Secolo e implementato ben prima della nascita dello Stato di Israele, e a portarlo avanti sono stati in molti casi quelli che anni dopo sarebbero divenuti i quadri del Mapai (da cui sarebbe poi nato il Partito Laburista), come Ben-Gurion e Levi Eshkol, oltre ai già citati Rabin e Peres. Ritengo quindi che la radicalizzazione a cui si assiste oggi, a cui contribuisce la sempre più palese convergenza tra establishment politico-militare e rabbinato (i cui rapporto con il sionismo era inizialmente assai conflittuale), rappresenti la naturale evoluzione di un processo che ha avuto origine molto tempo fa. Naturalmente, le spinte sempre più forti a passare dall’assetto “etnocratico” attualmente in vigore a uno più propriamente teocratico, dove la legge dello Stato coincida con i principi dell’Halakhah, non possono che esacerbare le divisioni interne al Paese e rendere Israele sempre più permeabile alle tendenze negative che premono dall’esterno. Quando una potenza militare di primo piano, dotata per di più di un modernissimo arsenale nucleare, tende a scivolare sul piano inclinato della radicalizzazione e a cedere sotto il peso delle lacerazioni intestine, i Paesi limitrofi non certo al riparo dai relativi, pesanti contraccolpi.

 

4) Le “primavere arabe” e i conflitti interreligiosi del Medio Oriente hanno determinato profondi mutamenti nella geopolitica mediorientale. Non si riscontra infatti più omogeneità tra gli interessi strategico-politici americani e israeliani. Anzi, assistiamo oggi al configurarsi di un nuovo asse strategico composto da Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, in contrapposizione al fronte costituito da Iran, Siria ed Hezbollah. E non dimentichiamo il ruolo ondivago ma determinante della Turchia. Il mondo unipolare egemonizzato dagli USA è dunque in declino? L’emergere di potenze locali autonome ha marginalizzato se non estromesso gli USA dal Medio Oriente?

 

Nella visione di due strateghi di punta come Brzezinski e soprattutto Kissinger, la supremazia degli Usa risiede non tanto nel loro potenziale economico e bellico, quanto sull’assenza di unità tra Europa ed Asia. Ragion per cui gli Stati Uniti avrebbero tutto l’interesse a strappare al ‘triangolo strategico Russia-Cina-Iran’ – cui Siria ed Hezbollah fanno riferimento – una potenza geopolitica di primo piano come la Repubblica Islamica e includerla nel novero dei Paesi alleati. L’accordo sul nucleare iraniano patrocinato dall’amministrazione Obama – e Obama è un allievo di Brzezinski – andava esattamente in questa direzione, ma le pressioni sugli apparati decisionali Usa esercitate da due nemici giurati di Teheran come Israele e l’Arabia Saudita ne hanno compromesso l’applicazione e vanificato gli effetti. Ma non è tutto. Nel settembre 2016, l’amministrazione Obama ha accordato a Israele qualcosa come 38 miliardi di dollari vincolati all’acquisto di armamenti Usa come forma di “indennizzo” per il tentativo di appeasement con l’Iran. Stessa cosa ha fatto Trump nel momento in cui ha raggiunto un’intesa con re Salman per la vendita ai sauditi di 110 miliardi di dollari di armi – che possono diventare 350 entro il 2027 e che vanno a sommarsi agli altri 100 miliardi di forniture militari accordate a Riad durante gli otto anni di amministrazione Obama. Il che significa da un lato che la convergenza di interessi tra Israele e Arabia Saudita è sempre più netta e palese, e dall’altro che gli Stati Uniti – pur continuando ad esercitare un ruolo determinante nella definizione degli equilibri del Medio Oriente – non riescono a condurre una politica mediorientale lineare ed autonoma, poiché risentono in maniera pesantissima dei condizionamenti dei loro ingombranti alleati. Erdoğan ha pensato di approfittare della situazione per giocare contemporaneamente su più tavoli e tenere il piede in due staffe, nella malriposta convinzione che questa politica ambigua gli assicuri i maggiori vantaggi. Nei fatti, la Turchia si è trasformata nel vero e proprio fattore critico della Nato, a causa della sua tendenza a condurre una politica estera non perfettamente allineata a quella degli Stati Uniti per effetto degli enormi interessi economici (si pensi al fabbisogno energetico) indistricabilente legati a un rapporto di cordialità con la Russia. Da tale quadro, emerge con chiarezza il declino relativo degli Stati Uniti e della loro capacità di coordinare le traiettorie fondamentali che regolano la vita economica e politica del pianeta. Questa perdita di soft power, dovuta essenzialmente ai colossali fallimenti inanellati nel corso degli ultimi decenni in materia di politica estera e alla loro gravissima e sempre più preoccupante situazione debitoria, li ha indotti a far ricorso in maniera sistematica a strumenti di natura militare per conservare la propria assertività, innescando un pericolosissimo avvitamento: tanto più si fa leva sugli strumenti militari, quanto più aumenta il bilancio della Difesa, quanto più si aggrava la posizione netta sull’estero, quanto più si riduce la credibilità internazionale. La Russia (sotto il profilo strategico-militare) e la Cina (sotto il profilo economico-finanziario), di converso, stanno gradualmente accreditandosi come veri e propri poli geopolitici alternativi, portatori di una diversa visione delle relazioni internazionali e della stessa concezione di sviluppo economico, considerato come il necessario risultato di un processo di integrazione tra tutti i Paesi di cui si compone la massa continentale eurasiatica.

 

5) Il configurarsi di nuove alleanze strategiche tra Israele e alcuni stati arabo – sunniti, ha posto fine all’isolamento politico che ha caratterizzato la storia di Israele sin dalla sua fondazione? Tali nuovi schieramenti sembrano comportare il declino della causa palestinese. Dato il venir meno delle tradizionali alleanze, lo spegnersi dell’eco internazionale, la progressiva espropriazione delle terre da parte degli israeliani, quali nuove prospettive possono ipotizzarsi per la causa palestinese?

 

In realtà, l’ostilità nei confronti di Israele da parte delle monarchie sunnite riunite nel Consiglio per la Cooperazione del Golfo, guidate dall’Arabia Saudita, è ormai da tempo un dato puramente formale. Quantomeno a partire dal crollo del Muro di Berlino, gli interessi degli uni e degli altri hanno infatti finito per coincidere la maggior parte delle volte. Le due guerre contro l’Iraq, così come i reiterati tentativi di ridurre l’influenza della mezzaluna sciita e arginare l’Iran, hanno tutelato palesemente gli interessi sia israeliani che sauditi. La convergenza si registra anche rispetto al conflitto yemenita. Sebbene non riconosca ufficialmente Israele, la famiglia reale saudita intrattiene stretti rapporti con l’apparato dirigenziale dello Stato ebraico. Anche la Russia ha notevolmente potenziato la relazione con Israele, grazie anche al massiccio afflusso di ebrei sovietici verso Israele verificatosi negli anni ’80, il quale ha fatto sì che attualmente il russo sia la terza lingua più parlata in Israele dopo ebraico ed arabo. Tutto ciò non ha certamente giovato alla causa dei palestinesi, relegata ormai – a voler essere molto indulgenti – a una faccenda di secondaria importanza, ma le ragioni fondamentali della perdita del coefficiente strategico che storicamente veniva riconosciuto alla questione palestinese vanno ricercate in primo luogo nell’implosione dell’Unione Sovietica e nel contestuale decadimento delle logiche su cui si reggeva la Guerra Fredda. Altro fattore parimenti importante è dato dall’incapacità dei palestinesi di esprimere e dotarsi di una classe dirigente adeguata. Con la morte di Arafat è venuto meno l’unico leader – per quanto non esente da colpe – in grado di portare la questione palestinese su un piano internazionale e di garantire un minimo di ordine all’interno dell’Olp, attualmente in mano a una schiera di burocrati indifferenti ai bisogni dalla popolazione e del tutto privi di senso della realtà. Il processo è ormai in atto da decenni, e a beneficiarne è stato Hamas, movimento islamico che alla prima occasione ha volato le spalle ai propri alleati storici (essenzialmente Siria, Iran ed Hezbollah) schierandosi al fianco del Qatar, il quale, grazie ai suoi denari, si è trasformato nel “padrino” della Fratellanza Musulmana – di cui Hamas rappresenta una filiale. In assenza di un apparato dirigenziale vicino alla popolazione e dotato della visione strategica necessaria a legare la propria causa agli interessi di qualche grande potenza mondiale, il popolo palestinese è destinato a soccombere all’urto israeliano.

 

6) Il disegno strategico americano ed israeliano nel contesto delle recenti guerre mediorientali, consisteva nella frammentazione degli stati arabo – sunniti di Siria ed Iraq in tanti piccoli stati a base etnico-religiosa, non autosufficienti economicamente e potenzialmente conflittuali. L’obiettivo israelo-americano era la balcanizzazione del Medio Oriente. Tuttavia, con la sconfitta dell’ISIS e l’intervento della Russia a fianco della Siria, tale prospettiva sembra tramontata. Quali nuovi equilibri possono prospettarsi per il prossimo futuro?

 

Il succo del vecchio “piano Yinon”, vale a dire il progetto israeliano mirante alla frammentazione del Medio Oriente su base etnica e confessionale, è stato di fatto introiettato dalle élite politiche Usa, che parallelamente al crollo dell’Unione Sovietica hanno messo in atto il proprio disegno strategico rivolto a scardinare gli equilibri geopolitici della macroregione che si estende dal Marocco al Pakistan per sostituirli con nuovi assetti maggiormente confacenti agli interessi degli Stati Uniti. Il programma di riorganizzazione di questo grande spazio è stato portato avanti per quasi trent’anni sotto ben quattro diversi presidenti (Bush sr., Clinton, Bush jr., Obama), attraverso interventi armati diretti in Iraq, Afghanistan e Libia (senza dimenticare l’aggressione israeliana al Libano del 2006) e operazioni coperte di vario genere in Siria, Egitto, Tunisia, ecc. Il ritorno di Mosca al centro del palcoscenico e la discesa in campo delle forze armate russe a supporto dell’esercito siriano hanno indubbiamente scompaginato i piani di Washington, e costretto l’élite politica statunitense a cimentarsi nel delicatissimo compito di rivedere la propria linea operativa. La totale mancanza di visione strategica da parte dell’apparato decisionale Usa si è tradotto in pratica in una politica incoerente, contraddittoria ed assai dispendiosa, che ha suscitato malumori non solo in seno a una fetta non irrilevante di popolazione statunitense, ma anche in alcuni ambienti di alto livello dello stesso “Stato profondo”. Il successo elettorale di un candidato come Trump è dovuto essenzialmente all’emergere di alcuni gravissimi problemi derivanti da un’unica colossale questione di fondo; la globalizzazione e le logiche che la governano hanno eliminato qualsiasi coincidenza tra gli interessi dell’establishment e quelli della popolazione. Grazie ad essa, le grandi imprese multinazionali hanno decuplicato i propri utili, ma in compenso milioni di posti di lavoro sono stati trasferiti dagli Stati Uniti a Paesi in grado di offrire serbatoi di manodopera a basso costo, cosa che ha determinato l’impoverimento generalizzato della classe media, l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri e il conseguente aumento del disagio sociale, puntualmente certificato dalla sempre maggior frequenza con cui si manifestano episodi come la rivolta di Ferguson. Circostanze come queste hanno reso il bellicismo ipertrofico propugnato da una componente nutrita e trasversale al panorama politico statunitense sempre più difficile da sostenere. Il problema è che gli interessi di una parte cospicua dello “Stato profondo” rimangono indistricabilente connessi a questo tipo di politica, cosa che spiega perché la politica estera è diventata il terreno in cui si consuma la resa dei conti tra i poteri forti Usa. Le condizioni per l’emergere di un assetto multipolare (incardinato essenzialmente su Stati Uniti, Cina e Russia) sembrano quindi esserci tutte, ma va sempre ricordato che una grande potenza è tanto più pericolosa quanto più confusa è la sua guida e avvertibile il suo declino.

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