Il ruolo prioritario dell’identità culturale nell’opposizione all’imperialismo statunitense è dimostrato dal fatto storico innegabile che le potenze che si oppongono agli Usa sono eredi delle grandi civiltà storiche, quali la Russia, la Cina, l’Iran, ma vi possiamo includere l’India e la Turchia che seppure non sono direttamente oppositori degli Usa intendono comunque perseguire una propria strada. Questa differenziazione ha in sé il germe di possibili conflitti, ma non necessariamente. Perseguire un’unificazione dell’umanità, oltre che garanzia certa di conflitto, porterebbe, se anche fosse possibile, ad una tetra omologazione, alla fine di quella diversità che riconosciamo come valore. L’Occidente non può fornire nessuna identità di appartenenza, è un insieme in fase di disgregazione in cui il nichilismo regna sovrano, una fase di dissoluzione che potrebbe diventare nei prossimi anni precipitosa e disastrosa.
Ragionare di teoria politica in Italia incontra un primo grande scoglio: non siamo una nazione sovrana, per cui non esiste un reale dibattito politico su quelle che dovrebbero essere le scelte nazionali, poiché qualsiasi argomentazione razionale in merito viene annullata dalla dipendenza italiana dagli Usa, dall’Unione Europea, e dai «mercati». Ciò vale soprattutto per la politica estera, ma non siamo sovrani neanche in scelte che in teoria non dovrebbero con essa interferire, come le politiche sull’immigrazione, poiché l’oligarchia occidentale dominante ha deciso che dobbiamo importare massicciamente «risorse umane», per il calo della natalità, per avere manodopera più a buon mercato rispetto a quella autoctona «viziata», e magari un domani, per disporre di carne da cannone da impiegare nei numerosi teatri di guerra che si prevedono nel futuro prossimo. E non importa se, in una nazione come l’Italia, poco coesa ed economicamente in crisi, un’immigrazione massiccia, concentrata nel tempo, rischia di provocare il caos interno. Ragion per cui anche le forze politiche che hanno sollevato demagogicamente la questione finiscono per adottare le stesse scelte di quelle pro-immigrazione. A parte la demenzialità di essere pro o contro l’immigrazione a priori, per partito preso, bisognerebbe invece ragionare su immigrazione in che misura, per quali fini, in quali condizioni, con quali conseguenze, ma non voglio dilungarmi ciò che ci interessa è la mancanza di sovranità dell’Italia che rende la democrazia una farsa.
Attenersi a questo dato di fatto in modo strettamente conseguenziale porterebbe alla deprimente conclusione che sia inutile ragionare di politica, e dedicarsi a coltivare il proprio «particulare», come suggeriva Guicciardini secoli fa in un contesto di asservimento dell’Italia a cui stiamo tornando. Ma sarebbe un errore, e dirò tra poco come credo sia possibile superare mentalmente questo impasse, intanto voglio indicare quale mi pare la reazione più comune, premesso che il comportamento bovino di chi volta le spalle a quanto avviene nel mondo non lo prendiamo in considerazione. Comune è oggi, e introiettata inconsapevolmente, l’adozione dell’ottica dell’Osservatore, cioè colui che osserva lo spettacolo di ciò che accade nel mondo stando alla finestra. Per fare un paragone: come chi si professa appassionato di sport, ma solo nella veste di spettatore assiso comodamente sul divano di casa, senza poi praticarlo. Massima espressione di questa «postura» è la rivista Limes, la quale talvolta ha l’ambizione di voler dare indicazioni ai decisori politici nazionali nel quadro dei rapporti geopolitici, ma negli stretti perimetri della dipendenza agli Usa, il che riduce quasi a zero le indicazioni. Oppure propone le relazioni dei propri esperti come guida pratica per le imprese che vogliono investire in una determinata nazione. Cosa di indubbio valore pratico, ma alquanto ristretto. Significativo che abbiano affidato al fantasma di John Florio, che firmava lo scorso agosto un articolo dal titolo Illusioni perdute. L’Occidente al bivio della storia, l’espressione di ciò che la direzione della rivista pensa sia la pessima situazione reale in seguito all’avventata decisione di entrare in una guerra per procura contro la Russia. Il che la dice lunga sull’effettivo grado di libertà di cui gode Limes.
È certo interessante capire cosa avviene in Medio Oriente, ma cosa me ne faccio se non esiste un’organizzazione politica che possa trasformare in proposta politica determinate conoscenze? Così siamo tutti trasformati in spettatori impotenti del genocidio e della pulizia etnica in Palestina. Qualcuno volenterosamente scende in piazza, ma senza che vi sia alcuna forza politica che raccolga l’orrore diffuso verso quanto sta accadendo e che miri a trasformarlo in una linea adottata dallo Stato che dovrebbe esercitare con i suoi strumenti delle pressioni nei confronti dello stato israeliano, che sarebbe il modo più efficace per reagire ad una situazione tanto umanamente inaccettabile quanto pericolosa per la spirale di conflitti che innesca.
Spesso l’Osservatore si presenta nella veste dell’«esperto», ovvero qualcuno che ha delle conoscenze specifiche su un determinato contesto, ad es. sul Medio Oriente o sui paesi asiatici, o su una determinata nazione estera. Vi è anche chi si spaccia per esperto, ma ha solo letto qualche libro su un determinato argomento, per il prestigio che il titolo conferisce presso il pubblico a digiuno di un argomento. L’esperto, in linea con il dominante specialismo, è colui che ha delle conoscenze specifiche che sono utili e necessarie, ma diventano il contrario quando non confluiscono in una visione d’insieme. Come sosteneva Lenin, «senza teoria nessuna rivoluzione», anzi, senza una teoria complessiva non è possibile l’azione politica, e coloro che pensano di farne a meno agiscono in base ad una teoria politica inconsapevole, ovvero sono eterodiretti. In merito, resto di stretta osservanza marxiana, teoria e prassi sono un binomio inscindibile, la validità, l’oggettività di una tesi può essere solo confermata dalla prassi, tuttavia il loro rapporto è dialettico, talora la prassi può restare sullo sfondo. E nel nostro caso vi deve restare per forza di cose. Sempre in termini marxiani, la teoria diventa una forza politica effettiva quando diventa condivisa a livello di massa.
Vi è infine un tipo particolare di Osservatore, al quale sento di appartenere, che osserva il mondo con la speranza di scorgere le dinamiche che possano portare infine allo sfascio definitivo di questo baraccone occidentale diventato distruttivo tanto sul piano interno che estero. Sì, sono ormai diventato un «accelerazionista».
Per cercare di trascendere questo ruolo di osservatori passivi a cui siamo, volenti o nolenti, costretti, che può pure sfociare nella depressione, propongo di adottare un adattamento politico della filosofia del «come se» del filosofo tedesco di fine ‘800 Hans Vaihinger, ragionando «come se» l’Italia fosse una nazione sovrana, o, in prospettiva, quali sono le condizioni che possono renderla tale.
Arriviamo quindi all’oggetto della nostra riflessione. Analizzare l’incipiente mondo multipolare è importante appunto perché esso può creare delle opportunità favorevoli per l’Italia (e sottolineo il carattere potenziale di tali condizioni). Già il «mondo bipolare» del dopoguerra aveva creato le condizioni per una «sovranità limitata», in cui abbiamo dato prova di una notevole vivacità tanto sul piano economico, quanto culturale e politico. Tale fase è terminata con il «crollo dell’Urss» e l’avvento della «globalizzazione». Quindi altrettanto potrebbe essere vero per quanto riguarda il «mondo multipolare», ma tale possibilità viene annullata dalla presenza di una classe politica interamente formatasi nel periodo della fine della sovranità limitata, che ha sostituito, con la spinta di «mani pulite», la classe politica della «I repubblica», uscita dalla guerra. Senza un radicale rinnovamento di tale classe politica, che sta raggiungendo livelli davvero infimi, sarà impossibile cogliere le occasioni per ritagliarsi lo spazio per una maggiore autonomia che solo consentirebbe di superare senza affondare il periodo di conflitti internazionali che è già iniziato. Anzi, proprio la crisi dell’egemonia statunitense ha prodotto un’ulteriore restrizione in tal senso, vedi interruzione dei rapporti con la Russia e con la Cina, che sta creando un serio danno economico all’Italia (e alle altre principali nazioni europee).
Ragionare sul mondo multipolare significa ragionare sull’assetto complessivo del mondo in cui viviamo, qualcosa che va ben al di là del contesto italiano. A livello immediato cos’è il mondo multipolare è presto detto: è la fine dell’unipolarismo statunitense seguito all’entrata in campo di potenze che direttamente si oppongono all’«Occidente allargato» come la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord, e altre, che pur non opponendosi direttamente, seguono un percorso autonomo, come l’India, la Turchia e in vario grado tutte le altre nazioni che hanno dato vita ai cosiddetti Brics, di cui però non va né sottovalutato il peso, si tratta comunque di una campo di rapporti alternativo a quello occidentale, né esagerato, non è una vera e propria alleanza tra potenze, che sono poi le reali oppositrici degli Usa.
Questo è l’assetto presente del mondo, ma per una comprensione storica del problema è necessario guardare alla lunga storia dell’espansionismo globale europeo, successivamente ereditato dagli Usa. Questa storia inizia 7 secoli fa ai tempi di Dante, il quale già ne comprese profeticamente le caratteristiche essenziali (vedi in merito il mio saggio Il folle volo in Occidente. La tragicommedia di Ulisse), con la nuova funzione che progressivamente acquisisce il denaro nel modellare un nuovo tipo di società. La ricchezza finanziaria acquisisce una nuova funzione che non aveva nelle società precedenti. La ricchezza economica diventa un fattore della potenza, e questa ricchezza è sviluppata da uno specifico sistema che prende forma nel corso dei secoli, e che dalle piccole enclavi delle città italiane come Firenze, Milano, Venezia e Genova, si estende a tutte le nazioni europee, e che abbiamo chiamato capitalismo, in merito al quale, finora, una delle migliori analisi resta quella di Marx, che lo definì appunto come un sistema il cui scopo principale è quello dell’incremento illimitato della ricchezza. Anche se non usò mai il termine capitalismo, e il motivo è chiaro per chi conosce la teoria marxiana: il suffisso ismo identifica il sistema in una forma di ideologia, mentre per Marx «il capitale è un rapporto sociale di produzione», struttura i rapporti reali che sono sottostanti l’ideologia.
Marx per primo individuò nel modo più chiaro la causa del male, a cui diede il nome di «Capitale», ovvero un tipo di società basata sull’accumulazione di capitale, un male di cui subiremo ancora una volta nei prossimi anni le conseguenze, per questo mi colloco nella strada da lui aperta. Tuttavia da quando lui scrisse la sua opera principale, abbiamo conosciuto meglio questo sistema sociale sia perché si è rivelato nei suoi sviluppi successivi, sia perché altre analisi hanno ampliato, modificato e corretto la sua analisi. Lenin, a sua volta, mettendo al centro la lotta contro l’imperialismo effettua un vero e proprio cambiamento di paradigma, pur presentandosi all’interno dell’«ortodossia marxista», identificando nelle nazioni «anelli deboli della catena imperialistica» i luoghi della trasformazione, e non nei punti più alti dello sviluppo capitalismo. A ragione Gramsci definì la rivoluzione sovietica una «rivoluzione contro il Capitale», ovvero una rivoluzione che avveniva contro le previsioni marxiane, secondo cui la rivoluzione sarebbe scoppiata nei punti più alti dello sviluppo capitalistico. Infine, il contributo più rilevante nella comprensione di questo sistema sociale è venuta da una corrente teorica che seppur non è da includere strettamente nel marxismo in senso classico, ne è sicuramente una derivazione, ovvero la World-system theory, in particolare nella versione di Giovanni Arrighi.
Il movimento comunista ha visto una fase con Marx in cui è prevalsa l’opposizione al capitale, e una fase in cui è prevalsa con Lenin l’opposizione all’imperialismo. Con Arrighi si va verso un’unificazione dei due concetti: capitalismo e imperialismo. Lenin aveva distinto una fase colonialista e una imperialista vera e propria, una distinzione creata ad hoc, a mio parere, per giustificare la centralità che veniva ora attribuita all’imperialismo. Citerò qui di seguito dei passi dal libro Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo che contiene la riflessione più compiuta in merito. Secondo Arrighi, il capitalismo è fin dall’inizio imperialista, «come sostiene Arendt, l’imperialismo costituisce “il primo stadio dell’ascesa al potere della borghesia piuttosto che lo stadio finale del capitalismo». La nuova funzione del denaro che inizia a prendere forma nell’Italia di Dante da forma ad un tipo di espansionismo che è una novità storica, ma all’inizio l’accumulazione capitalistica che serve a finanziare il militarismo, sono separati, nelle prime fasi dell’egemonia delle città italiane, in particolare quella genovese, ecc. nell’egemonia olandese, fino a che capitalismo e militarismo arrivano a coincidere in un’unica nazione, ovvero l’Inghilterra, dove il sistema assume la sua forma più compiuta.
«Fu in questo contesto che il Regno Unito si impose come nuova guida del processo di accumulazione senza fine di capitale e di potenza attraverso una fusione completa di capitalismo e imperialismo».
«Come dice Braudel, “si può parlare di trionfo del capitalismo solo quando esso si identifica con lo stato, quando si fa stato. Nella sua prima grande fase , quella delle città-stato italiane come Venezia, Genova e Firenze, il potere era saldamente nelle mani di una élite di ricchi. Nell’Olanda del diciassettesimo secolo, l’aristocrazia che esprimeva i Reggenti, governava a beneficio,e spesso sotto la direttiva di mercanti, imprenditori e banchieri. Analogamente, la Gloriosa rivoluzione del 1688 in Inghilterra segnò l’accesso al potere degli imprenditori sull’esempio olandese”»
Tuttavia solo quando il capitale riesce a conquistare un grande stato come l’Inghilterra, il capitalismo-imperialismo raggiunge la sua forma matura piena.
Per Arrighi il limite marxiano sta nel considerare solo il meccanismo economico che è vi dietro tale espansionismo, trascurando il ruolo del militarismo.
«Marx è più esplicito,anche se contraddittorio, sul meccanismo per cui il potere economico della borghesia si trasforma in dominio di alcune nazioni su altre. Meccanismo, descritto nel Manifesto e in diversi passi del Capitale, è la superiore competitività della produzione capitalistica .“I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le Muraglie cinesi.”Anche se poi, in uno degli ultimi capitoli del Primo libro del Capitale, menziona esplicitamente le Guerre dell’oppio contro la Cina come esempio della perdurante importanza della forza militare come “levatrice” della trasformazione capitalistica della società mondiale.
Almeno per quanto riguarda la Cina, la chiave per arrivare alla subordinazione economica dell’Oriente non furono dunque le metaforiche artiglierie delle merci a buon mercato, ma la forza militare vera e propria.»
In realtà secondo Arrighi la realtà storica è stata diversa, le merci inglesi non erano in grado di competere con quelle cinesi fu solo grazie al militarismo, alla propria superiorità tecnica sul piano militare che l’Inghilterra riuscì sottomettere la Cina, la quale in quanto potenza non espansionistica non aveva sviluppato quelle strutture militari capaci di far fronte all’Inghilterra che disponeva delle truppe indiane.
«Secondo la mia tesi è proprio questa sequenza, che rappresenta la tendenza a un’accumulazione illimitata di capitale e di potenza, a qualificare, più di qualsiasi altra caratterizzazione, lo sviluppo europeo come “sviluppo capitalistico”. Invece il fatto che nell’Oriente asiatico non si sia verificato nulla di simile, indica chiaramente come, prima della grande divergenza, il percorso di sviluppo fosse anche lì orientato decisamente all’economia di mercato né più né meno che in Europa, ma senza la dinamica capitalistica che caratterizza quest’ultima.»
E la dinamica capitalistica specifica europea è costituita dal connubio tra capitalismo e imperialismo.
«Tuttavia non si possono comprendere né i ricorrenti fenomeni di espansione finanziaria che costellano la storia del capitalismo, né la serie di stati sempre più potenti con cui il capitalismo si è di volta in volta identificato, se non li si mette in relazione con un’altra tendenza: quella verso l’intensa competizione interstatale per accaparrarsi i capitali mobili, un fenomeno che Max Weber ha identificato come “la caratteristica distintiva dell’età [moderna] nel panorama della storia mondiale”. Questa tendenza è la chiave per risolvere la questione della reciproca relazione fra capitalismo, industrialismo e militarismo, implicitamente sollevata, ma non risolta, da Smith e sulla quale né Marx né Schumpeter aggiungono niente di interessante».
Ritengo che sia evidente la rilevanza del contributo di Arrighi. Possiamo aggiungere, per un’ulteriore chiarificazione, che lo scopo dei gruppi capitalistici dominanti all’interno degli stati (insieme ai gruppi che sono al controllo dello stato e dell’esercito, e degli strumenti per l’influenza ideologica, media, scuola, istituzioni religiose e culturali) è primariamente quello di ottenere la supremazia sugli altri gruppi dominanti. Il Capitale (la potenza economica) è lo strumento utilizzato dagli «strateghi del capitale» (per citare Gianfranco La Grassa che ha fatto della questione l’oggetto principale delle sue analisi). Da ciò l’imperativo dell’accrescimento continuo del capitale necessario nella lotta per la supremazia nei confronti degli altri gruppi dominanti. Ponendo l’accumulazione come uno scopo subordinato a quello della lotta per la supremazia evitiamo quell’economicismo che è riduttivo e spesso fuorviante nell’analisi dei conflitti sia all’interno di una nazione, che tra i gruppi dominanti di diverse nazioni. Ad es. i gruppi dominanti europei (o meglio, sub-dominanti) stanno subendo un notevole danno economico nel conflitto contro la Russia, nondimeno trovano che questo sia un prezzo da pagare per mantenere la supremazia (all’interno della subordinazione agli Usa). Se poi questa sia la giusta strategia per il futuro di nazioni come la Germania, l’Italia e la Francia è un altro discorso, ciò che ci interessa ora è che talora il conflitto strategico per la supremazia, può essere anti-economico. Si mira sempre alla massima acquisizione di capitale, ma quando il contesto lo richiede questo obiettivo va in secondo piano. In taluni casi nel conflitto strategico si ricorre alla guerra, che è per sua natura anti-economica, è la «distruzione di capitali», per eccellenza che poi da vita ad «nuovo ciclo di accumulazione».
Lenin includeva l’esportazione di capitali nei cinque elementi che caratterizzano l’imperialismo, tuttavia vediamo che oggi gli Usa sono diventati il maggiore paese debitore del mondo. Ciò nonostante possiamo includere gli Usa all’interno dell’imperialismo capitalistico se superiamo la logica economicistica secondo cui la finalità del sistema sarebbe primariamente quella dell’incremento di capitale. Invece, il capitale non è un fine in sé, ma lo strumento per conquistare o mantenere la supremazia rispetto agli altri stati. Nel passato l’esportazione di capitale era strumento per l’espansione, oggi gli Usa debbono ricorrere all’acquisizione di capitali tramite il debito per mantenere la loro supremazia.
«Riformulando la sequenza di Marx nella terminologia di Harvey, si vede come essa descriva una serie di riorganizzazioni spaziali caratterizzate da una scala geografica sempre più estesa e da una diversificazione sempre più ampia e capaci di fornire sbocchi remunerativi ai capitali in eccesso che erano venuti sovraccumulandosi nei precedenti epicentri dello sviluppo e, contemporaneamente, di ridurre la necessità dell’accumulazione per spoliazione nei nuovi centri emergenti. Se un meccanismo di questo tipo fosse in funzione ancora oggi, dovremmo vedere gli Stati Uniti e gli altri paesi a capitalismo maturo impegnati a prestare “enormi quantità di capitali” alle nazioni emergenti. Ma allora, come mai in realtà assistiamo al fatto che gli Stati Uniti, invece che prestarle, prendono a prestito enormi quantità di capitali al ritmo, come si è visto nel Capitolo 5, di più di 2 miliardi di dollari al giorno? E come mai una quota continuamente crescente di questa massa di capitali arriva proprio da i paesi emergenti e dalla Cina in particolare?»
Secondo Arrighi il motivo per cui gli Usa hanno dovuto ricorrere al debito per mantenere la propria egemonia mondiale fondata sull’oneroso sistema mondiale delle basi e la supremazia del dollaro è stata la mancanza del dominio diretto di una nazione come l’India da cui l’Inghilterra trasse le risorse tanto economiche quanto militari, nei termini di uomini da inviare nelle numerose guerre che costellarono il suo dominio.
Arrighi mette in discussione, con l’esempio concreto degli Usa, un economicismo diffuso, non solo marxista, secondo il quale l’espansionismo militare è in funzione dell’espansione del capitale («le guerre sono dovute a cause economiche», «le guerre per il petrolio», «follow the money»), invece l’accumulazione è in funzione dell’espansionismo, l’accumulazione di capitale è strumento dell’espansione. Aggiungo che l’espansione su base economica influenza la forma dell’espansione militare diventa senza limite, senza scopo se non il proprio accrescimento, a-territoriale, alla ricerca di ricchezze da saccheggiare qua e la per il mondo, dando forma ad un espansionismo diverso da quella degli imperi del passato, ad es. rispetto all’impero romano il cui espansionismo fu strettamente territoriale, con un preciso senso del limite (Limes), e in cui le guerre avvenivano con il preciso scopo di sconfiggere determinate popolazioni da includere poi nell’Impero. Questo è ciò che è propriamente l’imperialismo, da distinguere accuratamente con la prassi degli Imperi del passato.
Riprendiamo il testo arrighiano:
«Marx coglie, anticipandoli, i tratti di quel la che oggi chiamiamo “globalizzazione” ma sbaglia nel predire che lo sviluppo capitalistico avrebbe “appiattito” il mondo, nel senso in cui Thomas Friedman usa questa espressione. In effetti l’aspettativa di un imminente appiattimento del mondo era così viva in Marx da spingerlo a basare interamente la sua teoria dello sviluppo capitalistico sull’assunzione di un mondo senza confini, in cui la forza-lavoro è totalmente spossessata di ogni mezzo di produzione e tutte le merci, ivi compresa la stessa forza-lavoro, vengono liberamente scambiate, a un prezzo all’incirca pari al loro costo di riproduzione. ». Inoltre, Marx «concentrato come sul nesso fra capitalismo e sviluppo industriale», finisce «per trascurare del tutto la strettissima connessione che lega questi due fenomeni sociali al militarismo».
In questi passi vi è definita con acume dialettico la modalità critica con cui dovremmo relazionarci all’eredità del pensiero marxiano, il quale coglie le forze che avrebbero condotto all’espansione mondiale di questo nuovo sistema, ma solo sul piano economico, e inoltre ritiene che esse avrebbe creato quell’unificazione (che Arrighi definisce con termine più adeguato appiattimento) che avrebbe creato le condizioni per il dominio mondiale del comunismo, che è il rovesciamento in un sistema socialmente più giusto del capitalismo. Già l’adozione da parte di Lenin della centralità della lotta contro l’imperialismo rappresenta un’inversione di rotta rispetto a Marx, anche se Lenin volle presentarla come marxianamente ortodossa (per i necessari riferimenti testuali e storici che provano quanto affermo devo rimandare al mio libro Per un nuovo socialismo).
L’analisi di Arrighi è stata assunta da Carlo Formenti come punto di riferimento centrale per il contesto odierno. Innanzitutto, voglio dire che è apprezzabile il suo tentativo di avviare una riflessione teorica autentica, per quanto essa in alcuni casi è necessariamente ipotetica, oppure proiettata nel futuro nel senso che necessita del maturare di determinate condizioni. Condivido la valorizzazione del pensiero dell’ultimo Arrighi, particolarmente riguardo alla questione del «socialismo di mercato», secondo cui una società può sviluppare il mercato pienamente senza configurarsi come «capitalista», perché si configuri ciò che chiamiamo capitalismo è necessario che l’accumulazione capitalistica sia al servizio di un espansionismo senza limiti. Ritengo però che a questo punto si ponga un problema terminologico, per cui propongo in via provvisoria il termine capitalismo-imperialismo, comunque sarebbe necessario un termine che indichi la stretta connessione, l’inseparabilità tra capitalismo e imperialismo.
Questa analisi, basata sulla realtà storica della Cina, che aveva appunto sviluppato un ampio mercato, prima delle guerre dell’oppio, senza diventare imperialista, è di grande importanza poter immaginare una società post-imperialista.
Apprezzo molto inoltre da parte di Formenti il confronto da lui intrapreso con il pensiero di Costanzo Preve e la sua denuncia del «vergognoso ostracismo» di cui è stato fatto oggetto dal suo ambiente di provenienza: la sinistra comunista. Tuttavia ritengo che non abbia considerato l’apporto di Preve veramente decisivo per superare la fase del reducismo, come sarebbe oggi indispensabile. È necessario effettuare un salto che ci porti dall’altra parte rispetto ad un’ideologia che appartiene al passato e che Formenti non compie.
Quanto resta del comunismo in Italia fornisce un minimo di comunità politica, ma sempre più esigua, che consente di evitare l’isolamento. Tuttavia credo che senza la necessaria innovazione si finisca per rinchiudersi in gruppi di nostalgici senza futuro. Penso invece che sia necessario tentare strade nuove, per far questo è necessaria una certa dose di coraggio morale. Costanzo Preve, che di questa dote non difettava, non ebbe timore di scandalizzare la base identitaria, avviando un ampio confronto con Alain de Benoist, piuttosto che un «gesto provocatorio» (Formenti) questo confronto è stato una delle tante intuizioni del grande filosofo che hanno precorso i tempi. Oggi, dopo la guerra contro la Russia questa collaborazione con esponenti della Nuova Destra, e altri non provenienti dalla sinistra, ad es. Fabio Mini, Franco Cardini, è diventata prassi diffusa, come ha dimostrato un articolo recente di Micromega contro la web-tv Ottolina, ignobile nelle intenzioni ma dettagliato e preciso. Tanto per dire, Giacomo Gabellini che fa un grande lavoro di informazione attraverso libri e registrazioni video, e che Formenti cita ampiamente, pur non definibile un esponente della nuova destra debenoistiana, vanta una passata collaborazione con la rivista Eurasia. Diego Angelo Bertozzi proveniente dalla sinistra comunista, di cui Formenti apprezza molto i libri sulla Cina, ha scritto in passato un libro con Andrea Fais, Il risveglio del drago, è stato collaboratore anch’egli della rivista Eurasia. Oggi, dopo la guerra contro la Russia, questa collaborazione si è in un certo senso normalizzata e non credo che quelli di Ottolina rinunceranno al contributo di Gabellini, Stefano Orsi, Daniele Perra, Andrea Zhok, e vari altri «denunciati» dal relitto della già a sua tempo inutile rivista, appartenente, fino a qualche anno fa al gruppo Gedi. Naturalmente, non poteva mancare Costanzo Preve, di cui Ottolina sarebbe rea, per Micromega, di aver commemorato la morte in un video. Ma la stessa rivista aveva pubblicato un articolo «In ricordo di Costanzo Preve, marxista libero e critico» nel novembre del 2013. Il cortocircuito è totale.
Sarebbe idiota privarsi dell’apporto intellettuale degli esponenti della «nuova destra», o altri affini, non confrontarsi con loro, quando si condividono gli obiettivi fondamentali della riconquista della sovranità dell’Italia, della lotta contro la guerra alla Russia e contro il genocidio in Medio Oriente. Il che non significa che domani verrà formato un nuovo partito «rossobruno». Sarebbero anche da chiarire le reciproche differenze, ma ho visto che l’andazzo è quella di una tacita collaborazione, fregandosene giustamente di quanto scrive Micromega, senza però un chiarimento in merito, ma le principali resistenze le avverto dall’ala di derivazione comunista di questo campo perché «la base non capirebbe». In questo modo, la fantomatica base, sempre più esigua, diventa come «le sabbie mobili che tirano giù» di cui cantava Battiato. Chi ha l’ambizione di svolgere una funzione intellettuale che è per sua natura di avanguardia, deve avere il coraggio di opporsi ai pregiudizi della base quando necessario. Va chiarito una volta per tutte che né Alain de Benoist, né Aleksandr Dugin sono nostalgici fascisti in quanto considerano il fascismo un’esperienza conclusa, chi afferma il contrario dimostra di non aver nemmeno una minima conoscenza del pensiero di chi vorrebbero denunciare. In generale, i reduci del neo-fascismo sono anti-russi e pro-ucraini. Utilissimo sarebbe oggi un vero confronto critico con il pensiero di Dugin che ad es. ha scritto un importante testo sulla «Teoria del mondo multipolare». Personalmente non condivido il tradizionalismo duginiano, nondimeno il suo testo sulla Teoria del mondo multipolare costituisce un importante termine di confronto su tale cruciale questione.
Formenti nella sua analisi del «socialismo cinese», in un’ottica di difesa dei «socialismi reali», pur riconoscendo che il modello cinese è difficilmente importabile da noi in quanto profondamente radicato nella cultura confuciana meritocratica, intende comunque rilanciare il socialismo in continuità con il passato. Tuttavia, seppure va rivendicato che il socialismo sovietico ha significato un passo in avanti sia per il movimento di de-colonizzazione del dopoguerra, sia per le classi popolari occidentali stesse, in quanto, come è stato riconosciuto da vari studiosi, lo stato sociale del dopoguerra deve molto alla necessità di far fronte anche sul piano delle politiche sociali alla presenza dell’Unione Sovietica e non certo rinnegato, allo stesso tempo è necessario riconoscere che il «crollo dell’Unione Sovietica» costituisce una cesura con il passato. Quel tipo di universalismo è fallito ed appartiene al passato, per varie ragioni come ha cercato di analizzare in una recente intervista con Luigi Tedeschi (1). La presenza della Cina non è sufficiente è garantire una continuità con il passato, e il movimento comunista non esiste più nel mondo come realtà significativa. La Cina non potrà sostituire l’Unione Sovietica, non può essere posta come modello, né come guida e neanche intende esserlo. Va riconosciuto che il comunismo storico, ovvero quello egemonizzato dall’Unione Sovietica appartiene ad una fase storica che si è chiusa. Il comunismo stesso, quale declinazione storica del socialismo, va abbandonato quale utopia globalista e universalista che mirava ad un dominio globale del comunismo. Vi sono varie realtà politiche nel mondo, in particolare in America Latina che si richiamano al socialismo, e anche lo stesso modello cinese, e i conflitti che accompagneranno l’affermazione del mondo multipolare, la necessità di superare l’imperialismo occidentale, pena la deflagrazione mondiale, ci indicano che vi è la possibilità, anzi la necessità, di ricostruire una prospettiva socialista, ma va appunto ricostruita sulla base di una attenta valutazione di ciò che nel passato non ha funzionato. Lo stesso Formenti nei suoi libri recenti afferma di voler rivitalizzare il socialismo, non credo che che usi i termini a caso.
E in questo senso è indispensabile un vero confronto con la filosofia di Costanzo Preve, il cui nucleo centrale è diretto proprio al superamento dell’universalismo del comunismo storico, pur essendo lui un ultimo grande esponente, sul piano filosofico, del comunismo italiano.
Ritengo che anche la World-system theory, sia impostata su di una forma di universalismo da superare, ma questo non è il luogo per una discussione adeguata della questione (questo testo è una versione sintetica di una discussione più articolata che intendo sviluppare sugli stessi argomenti). Lo stesso Arrighi, l’esponente più interessante di questa corrente, e che ha dato un contributo importante alla comprensione del mondo in cui viviamo, come ho cercato di esporre in termini sintetici, conclude il suo ultimo libro con la proposta di un «commonwealth delle civiltà», e già la terminologia ne tradisce la marca anglosassone che è propria della World-system theory, anche se Arrighi è di origine italiana. Ora, se non vogliamo abbandonare il campo del realismo politico, se anche l’umanità sopravviverà all’ultimo, e forse finale, «folle volo» del capitalismo-imperialismo, e infine le nazioni occidentali si rassegneranno a convivere in modo paritario con le altre nazioni e culture del mondo, le relazioni non solo tra l’Europa, gli Usa e la Russia, ma anche tra la Russia e la Cina, tra la Cina e l’India ecc. saranno regolate dai rapporti di forza, continuerà la competizione per le aree di influenza, l’importante è che questa competizione non trasformi in scontro di civiltà. Ed è qui che sorge l’esigenza di un nuovo universalismo che non sia l’altra faccia, quella buona e morale, dell’imperialismo.
Scriveva Preve in Elogio del comunitarismo:
«Il comunitarismo, così come ho cercato di delinearlo, resta la via maestra all’universalismo reale, intendendo per universalismo non un insieme di prescrizioni dogmatiche “universali”, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità. Quando si parla di universalismo, infatti, non si deve pensare a un insieme di prescrizioni, bensì a un campo dialogico costituito da dialoganti che hanno imparato a capire le lingue degli altri, anche se forse non le parlano con un accento perfetto.»
Quindi è semplicemente errata è la critica di «localismo» (cioè anti-universalismo), è un’incomprensione e travisamento del testo che ritengo dovuta ad un pregiudizio causato dall’attaccamento alla passata forma di universalismo. È sorprendente questo travisamento del testo da parte di Mimmo Porcaro nella prefazione ad una nuova edizione di Elogio del comunitarismo di Preve, insieme ad altre opere in tre volumi, uno dei quali vede la prefazione di Formenti. Tanto più sorprendente in quanto coglie benissimo la derivazione del comunitarismo previano dalla critica derivata da Hegel, all’universalismo astratto che aveva caratterizzato tanto la rivoluzione francese quanto quella sovietica.
Infine, è bene chiarire che se il pensiero marxista ha dato un contributo tuttora indispensabile alla comprensione di quel capitalismo-imperialismo che ha una storia secolare e con cui dovremo nei prossimi anni ancora una volta fare i conti, allo stesso tempo risulta a dir poco carente nella comprensione di ciò che si oppone a questo rullo compressore che mira all’appiattimento di ogni civiltà, ovvero quelle forme di identità storiche di lungo periodo che chiamiamo civiltà. Anzi, l’unificazione e dominio globale a cui mira il capitalismo-imperialismo viene visto positivamente da Marx, come scrive lo stesso Arrighi. Il ruolo prioritario dell’identità culturale nell’opposizione all’imperialismo statunitense è dimostrato dal fatto storico innegabile che le potenze che si oppongono agli Usa sono eredi delle grandi civiltà storiche, quali la Russia, la Cina, l’Iran, ma vi possiamo includere l’India e la Turchia che seppure non sono direttamente oppositori degli Usa intendono comunque perseguire una propria strada.
La forza dell’identità culturale che vediamo quale principale fattore di opposizione al globalismo imperialista deriva dalla natura sociale dell’essere umano che, in quanto zoon politikon, ha bisogno di riconoscersi in un gruppo sociale, ma non in senso astratto in un gruppo sociale determinato. Così come Pietro ha bisogno di Paolo per riconoscersi come uomo, come scrive Marx in una nota de Il Capitale, così ogni identità culturale ha bisogno delle altre identità culturali per riconoscersi come tale. Questa differenziazione ha in sé il germe di possibili conflitti, ma non necessariamente. Perseguire un’unificazione dell’umanità, oltre che garanzia certa di conflitto, porterebbe, se anche fosse possibile, ad una tetra omologazione, alla fine di quella diversità che riconosciamo come valore.
L’identità culturale è il «materiale» (in senso metaforico) con cui attraverso una costruzione politica vengono formati gli stati. Vi sono poi i sistemi «imperiali», come la Russia, che contengono in se diverse identità culturali, ma ciò che unisce i singoli gruppi, ma ciò che unisce il singolo gruppo è l’identità culturale, sovente nella forma di una specifica religione. Oggi sia la Russia che la Cina si autodefiniscono Stati-civiltà proprio in opposizione al globalismo occidentale (devo rimandare ancora all’intervista con Luigi Tedeschi).
Per questo è indispensabile la correzione comunitaria del marxismo avanzata da Preve. Il comunitarismo di Preve è essenzialmente di marca aristotelica e deriva della definizione dell’essere umano quale zoon politikon. Anche Marx riconosce la natura essenzialmente sociale dell’essere umano, tuttavia la riconosce in senso astratto, non riconosce che tale socialità porta alla formazione di comunità determinate, differenziate dalle altre. Del triplice significato del termine greco, essere umano quale essere politico, sociale e comunitario Preve privilegia in questo caso il significato di comunitario, in quanto l’essere umano non è essere sociale in senso astratto, ma attraverso l’appartenenza a determinata comunità che si differenziano dalle altre comunità, ad es. appartiene ad una famiglia che si differenzia dalle altre famiglie, oppure ad una classe sociale, ad uno stato ad una civiltà che si differenziano dalle altre classi sociali, stati e civiltà.
Le comunità, come dice il termine, sono dei gruppi umani che hanno delle cose in comune, dal gruppo più piccolo come la famiglia, dove i coniugi hanno in comune la gestione della vita quotidiana, della casa, eventualmente la crescita dei figli, ecc., alle classi sociali che hanno in comune la condizione lavorativa, ai gruppi etnici che hanno in comune lingua, religione, usi e costumi che associandosi con altri gruppi più o meno affini e contigui territorialmente, danno vita agli stati che ac-comunano i cittadini nella gestione dello stato, con gli oneri e diritti che richiede e conferisce, certo secondo una gerarchia che talvolta può essere sbilanciata fino all’esclusione di alcune classi o gruppi etnici che può condurre ad una ribellione causando una rottura della comunità.
Questa differenziazione, ripeto, può portare potenzialmente al conflitto, che è compito della politica appianare, invece l’universalismo imperialistico è la garanzia certa del conflitto. Il comunitarismo aristotelico è in contrapposizione con il contrattualismo moderno che va da Hobbes, Locke fino a Rousseau. Preve osserva che il più acceso oppositore di Aristotele fu Hobbes. In generale, il contrattualismo vede l’essere umano come un essere a-sociale che entra in rapporto con gli altri esseri umani per motivi utilitaristici, fondandosi su antropologie puramente immaginarie come l’homo homini lupus oppure l’essere umano che vive solo e beato nello stato di natura. Formenti ricorda la sacrosanta critica di Marx ai diritti civili che, nel loro orizzonte esclusivamente individuale, ignorano la natura comunitaria dell’essere umano, critica che si applica perfettamente all’odierna sacralizzazione dei diritti civili che vengono scientemente posti in contrapposizione ai diritti sociali. Per Marx l’essere umano è per natura sociale, riproduce la sua vita soltanto in associazione con gli altri altri esseri umani, e definiva robinsonate le fantasie dei liberali, che partono da un individuo bastante a se stesso, e che si associa con gli altri solo per motivi utilitari. Tuttavia, la critica marxiana dell’individualismo liberale conduce ad un socialismo (nella forma del comunismo), ma non ad un «socialismo comunitario», poiché l’essere umano viene visto nella sua natura astrattamente sociale, e non come un essere la cui natura sociale si realizza sì all’interno della comunità, ma in una comunità determinate. Il comunismo marxiano si configura come un universalismo socialista alternativo a quello liberale, ma un universalismo che nega il particolare. Questo universalismo fu funzionale all’Unione Sovietica, come strumento di egemonia globale in competizione con l’egemonia globale statunitense, dopo la parentesi comunitaria staliniana (Stalin definì lo stato una «comunità di lingua e destino») che dovette chiamare in campo le forze dell’identità patriottica dei russi per far fronte all’invasione nazista. L’universalismo comunista sovietico è impositivo, si scontra con la presenza nel suo campo di altre forme di identità storica, in primis la Cina che finisce negli anni settanta per passare di fatto nel campo occidentale. Ciò fu un duro colpo al colpo al campo comunista del dopoguerra, e ha giocato un ruolo di primo piano nella sconfitta e dissoluzione finale dell’Unione Sovietica (devo ancora rimandare in merito per una discussione più dettagliata alla mia intervista con Luigi Tedeschi). Ciò che limitò molto la capacità di contrastare il campo liberale fu il fatto che l’alleanza con l’Urss comportava l’adesione al modello comunista sovietico, limitando ad es. l’adesione delle potenze arabe nell’area cruciale del Medio Oriente nel caso dell’Iran, dell’Arabia Saudita, dell’Egitto dove il ruolo tradizionale della religione aveva ed ha ancora un forte peso. Più abile nel dopoguerra risulta l’approccio manipolatorio statunitense che apparentemente non richiede l’adesione ad un determinato modello, chiedeva solo di condividere i valori della libertà e della democrazia, dove «ognuno suona come vuole, e tutti suonano come vuole la libertà», per dirla con Gaber. Né gli Usa si presentano come anti-religiosi, anzi riuscirono a sfruttare l’Islam e il cattolicesimo contro l’Unione Sovietica. Oggi, la Russia non ha più questo limite, non chiede ai propri alleati l’adesione ad un determinato modello sociale, mentre sono gli Usa ad apparire come gli impositori del proprio modello sociale, attraverso «l’esportazione dei diritti umani». Putin ne fatto un strumento di propaganda offrendo, in un decreto dello scorso agosto, «asilo politico» a chi non si riconosce negli «ideali distruttivi neo-liberali».
Dunque un nuovo socialismo deve essere un «socialismo comunitario», anche Formenti usa in qualche occasione questo termine, cioè deve essere radicato nella propria comunità di appartenenza. Ma essa qual è? Questo oggi il problema più grande e difficile da affrontare. 70 anni di dominio statunitense hanno distrutto la nostra cultura di appartenenza, cioè quella cultura italiana che è stata una declinazione significativa della cultura e civiltà europea. Pasolini sosteneva giustamente che la «cultura di massa» statunitense aveva attuato un genocidio culturale molto più sofisticato ed efficace del fascismo. Anche se l’egemonia statunitense si è potuta attuare perché la civiltà europea si è autodistrutta in due guerre «mondiali» spaventose per la devastazione che hanno prodotto. In ogni caso, esiste ormai una frattura con l’universo culturale a cui ancora appartenevano Gramsci e Croce, per non dire di Dante, Machiavelli, Leopardi, Manzoni, Collodi ecc.
L’Occidente è un non luogo. Indicare un luogo come occidente senza un termine di riferimento non vuol dire nulla. Ad es. la Cina è situata a occidente rispetto all’Australia, la quale tuttavia fa parte dell’Occidente, anzi appartiene al suo nucleo duro, quello delle nazioni anglosassoni. L’adozione di questo termine è davvero sintomatica. L’Occidente è un entità di carattere politico e culturale, ma situata in un luogo non definito, è a Occidente, ma non si sa di cosa. L’Occidente non può fornire nessuna identità di appartenenza, come ha ben argomentato Emmanuel Todd in La sconfitta dell’Occidente, è un insieme in fase di disgregazione in cui il nichilismo regna sovrano, una fase di dissoluzione che potrebbe diventare nei prossimi anni precipitosa e disastrosa.
Allora la nostra identità è tutta da ri-costruire, non dal nulla ovviamente, ma tenendo conto della frattura che c’è stata nel dopoguerra. E questo compito potranno portarlo avanti solo le classi popolari, in quanto invece nelle classi dominanti è radicata un cultura «cosmopolita» (occidentalista, per la precisione) anti-nazionale e anti-popolare. Man mano che si intensificheranno i conflitti dovuti alla fase di disgregazione è la principale risorsa a cui potremo far ricorso, se non sapremo ricostruire e riappropriarci della nostra identità e della nostra cultura ci sarà solo da rassegnarsi a ritornare ad essere «espressione geografica», insieme all’intera Europa.
1) La Guerra Grande: universalismo USA vs Stati – Civiltà (Intervista a Gennaro Scala a cura di Luigi Tedeschi), consultabile all’indirizzo https://www.centroitalicum.com/la-guerra-grande-universalismo-usa-vs-stati-civilta/