E’ in crisi l’eccezionalismo americano. Gli americani sono ormai divisi in due mondi che non si riconoscono l’uno con l’altro: due visioni dell’America del tutto inconciliabili. Per gli USA in Ucraina partita ormai è persa: unico obiettivo residuo è mantenere la crisi aperta per impegnare Mosca il più a lungo possibile. Che ne sarà dell’Ucraina dopo? Quella in corso in Palestina, nel Sud Globale è vista come guerra di liberazione. Al-Aqsa Flood ha ferito profondamente Israele, che tenta di restaurare la deterrenza con violenza cieca. Dopo un anno, unica speranza di Netanyahu è allargare il conflitto costringendo gli USA a scendere sul campo. Ma gli USA non possono intraprendere una guerra che non sono in grado di sostenere. La questione di Taiwan è legata al controllo del Mar Cinese Meridionale. Per la Cina, riunire l’isola con la terra ferma significa coronare il Secolo del Riscatto. Gli Stati Civiltà stanno emergendo: è il ritorno delle culture che rigettano l’omologazione della cultura unica occidentale. Il Vecchio Continente è oggi ridotto a provincia dell’impero americano.
I dolori di un Egemone confuso
A pochi giorni ormai dalle elezioni, l’impero americano s’interroga sul futuro: nel suo centro, due fazioni contrapposte, irriducibilmente avverse, vedono nell’altra un nemico, il male, la rovina propria e di tutto ciò in cui si crede (o si crede di credere); nelle province, in Europa in primis, ci si domanda chi sarà il nuovo Comandante in Capo e ci si prepara a riposizionarsi. Alleati sudditi e pupilli sono sospesi e tifano a seconda di convenienze vere o – più probabilmente – presunte, chi temendo di perdere i favori di chi verrà, chi augurandosi d’avere ancor maggiore e incondizionato appoggio.
Il punto è che l’Egemone è confuso in un mondo che ha scoperto diverso da come sempre creduto; con sommo stupore ha constatato di non essere più amato, che il suo soft-power è rifiutato e ciò lo costringe a guerra aperta. È un mondo pronto a sfidarlo, che non teme più la sua deterrenza e mette in dubbio la sua egemonia. Inaudito per chi si ritiene eccezionale, unico legittimato a detenere potenza e ad assegnare i ruoli nell’ordine mondiale, il proprio. E non è solo questo: ha il cuore lacerato fra narrazioni inconciliabili; pur ammassando montagne di ricchezze – a beneficio di pochi – le risorse si scoprono limitate, insufficienti a rispondere alle sfide che si moltiplicano.
Continua a ripetersi che la propria potenza è enorme, inarrivabile, e la ricchezza straripante, ma è solo un mantra per esorcizzare la paura inedita che s’insinua in lui: la prima non è espressa, è inattingibile; come renderla da potenziale a reale? Come convincere Mayor che dettano le proprie agende alle Amministrazioni Federali a mettersi al servizio di esse? A capovolgere l’essenza di un sistema? Fantasia che, nel mondo d’oggi, neanche un nuovo 11 Settembre renderebbe realtà. La seconda è figlia della prima: montagne di denaro affluiscono negli USA, ma finiscono in sempre meno forzieri sempre più grandi, scansando la stragrande parte della popolazione spinta in un crescente disagio, per molti nella pura indigenza (vedere il tappeto di homeless coi loro cartoni e stracci all’ombra di scintillanti grattacieli).
Establishment e think thank si sgolano a ripetersi l’un l’altro che gli USA devono ricomporre il loro cuore lacerato (ossimoro); devono ritornare ricchi, rinverdire un American Dream scolorito (ancora ossimoro); devono tornare a fare paura: già, ma a chi e come? Abbiamo detto che è contraddizione in termini pensare di ricomporre le faglie interne, quattro anni d’Amministrazione Biden, che in teoria si riproponeva ciò, le hanno allargate; oggi prescindono dai candidati alla Presidenza, gli americani sono ormai divisi in due tribù, mondi che non si parlano se non per invettive; spaccature che attraversano società, comunità, famiglie impedendo la comunicazione. Negando la legittimazione dell’altro. Impensabile condivisione di scopi. Ed è impensabile fondare su questa anima frantumata una Geocultura, proiezione di un’anima comune che dia senso a ciò che si fa e ne sostenga il peso. In estrema sintesi, di uno stare nel mondo condiviso che l’informale impero USA ha smarrito.
Ma è contraddizione anche che gli USA tornino a essere una società uniformemente ricca con una classe media benestante. In altre occasioni abbiamo detto e ridetto che agli albori dell’Unipolarismo – in verità anche prima – gli Stati Uniti hanno ripudiato l’economia reale per virare su finanza, servizi, hi-tech e controllo degli snodi commerciali, dismettendo tutte le attività a minor valore aggiunto (in gergo, più “mature”) per lanciarsi unicamente su quelle più redditizie. Distruggendo con ciò la propria classe media e pagandone oggi le conseguenze. Domanda: nella patria del turbo-liberismo, come convincere un imprenditore a investire in attività nettamente meno redditizie? E quand’anche ricchi incentivi – e magari pressioni – statali convincessero qualcuno a farlo, dove troverebbe la mano d’opera adatta in un mondo del lavoro da decenni avviato a netta divaricazione fra lavori superspecializzati e iper pagati e la Gig Economy di attività sottopagate e temporanee? Lo si voglia ammettere o meno, l’economia americana è oggi deindustrializzata, su tale struttura è impensabile basare inversione geoeconomica.
Infine, e non per ultimo, da decenni gli USA non esercitano pensiero strategico che non sia provare a imporre i propri interessi (o ciò che ritengono tali, non è affatto lo stesso); sono concentrati sul breve – oggi brevissimo – periodo, più che altro abbozzo di risposte all’azione altrui. Attitudine che si auto alimenta poiché, dinanzi all’azione altrui che si subisce, meno che mai si prevede per l’incapacità di comprenderla, l’urgenza della risposta passa dinanzi a ciò che è realmente importante. Sia come sia, la profondità, non diciamo di lungo, anche di medio periodo è agli USA estranea. Nella convinzione di poter dominare il mondo finiscono per collezionare avversari, che si uniscono in nome di coincidenza d’interessi contro di loro, pericolo manifesto, anche quando avrebbero ottime ragioni per contrapporsi l’un l’altro (ci torneremo). Nei fatti, il loro soft-power non funziona più, rigettato insieme a globalismo e universalismo, costringendoli all’uso compulsivo dell’hard-power che li sfianca, perché strutturalmente porta meno frutti che guadagni; di smart-power non parliamo neanche.
Paradosso è che sono gli stessi USA ad aver spezzato le reti della globalizzazione e del commercio, per colpire chi è reo d’averli usati meglio di loro e ora è emerso al mondo, reclamando indipendenza e posto consono alla stazza acquisita. E le supply-chains si stanno infatti ridisegnando, ma a danno dell’America e del suo impero; la sta lasciando con la parte di mondo che ha minori margini di crescita economica e demografica, mercati ormai “maturi” ed economie affamate di materie prime che non hanno; dall’altra parte ci sono le nazioni con forza lavoro, mercati interni e commodities per alimentarli. Insomma: economie reali v/s finanza, potente, certo, ma che non può sostenere necessità e benessere di un miliardo di persone rinchiuse in una bolla autoreferenziale. Prospettiva di declino certo.
La triste fine del pupillo ucraino
Come reagire alle sfide? Negli anni scorsi gli USA avevano visto la perla della loro corona, l’Europa, slittare timidamente verso altre sponde, abbozzo d’approccio utilitaristico che l’accostava ai suoi competitor, Russia e Cina. Per l’Egemone dinamica irricevibile. Spezzare le relazioni fra il Vecchio Continente (leggi: Germania) e Mosca e congelare quelli con Pechino era per Washington imperativo. Missione compiuta fulmineamente per interposta Ucraina, anzi, doppio successo: frattura di canali indispensabili alle economie europee rese più deboli – dunque più malleabili – e riaffermazione di tutela spinta al completo assoggettamento. Strike. Reso possibile dal fatto che i timidi tentativi di smarcamento avevano basi economiciste, non sostenute da alcun disegno politico. Facendo perno su leadership europee cresciute nell’obbedienza agli USA prima che alle proprie nazioni, per Washington è stato ridicolmente facile rimettere l’Europa nel carniere.
Il punto è che, raggiunti gli obiettivi del conflitto con Mosca, gli Stati Uniti non hanno agito secondo pensiero strategico. A loro sarebbe bastato appoggiare l’accordo raggiunto in Turchia fra Russia e Ucraina, a fine marzo del 2022, piuttosto che farlo naufragare. Invece, dopo aver aizzato la russofobia di nordici, polacchi e baltici e lasciata libera iniziativa alla Gran Bretagna, ottenuto il risultato, le Agenzie USA non hanno voluto smorzare la contrapposizione con la Russia, auto-illuse di una possibile – e definitiva – vittoria strategica su Mosca. Prospettiva su cui Washington ha investito politicamente, economicamente e militarmente in maniera crescente e spinto i clientes europei su quella strada. Fino a rendere impossibile un cambio di rotta pena drastica ammissione di sconfitta netta, che oggi si delinea inequivocabilmente malgrado le cortine della propaganda. Raro esempio di autogol che tramuta possibile vittoria politica in rovinosa sconfitta causa mancanza di strategia.
Per gli USA è stato cacciarsi in un vicolo cieco: sono oberati d’impegni cui non riescono più a dare risposte, distratti da crisi che si moltiplicano demolendo il loro “ordine” mondiale e con esso loro pretesa d’egemonia globale. Con ciò impedendogli di concentrarsi sull’essenziale: il contenimento della Cina (su cui ritorneremo), loro irraggiungibile Stella Polare che, stante le circostanze, continua a restare sullo sfondo. Per questo, da quando è scoppiata la crisi mediorientale, il mantra è stato scaricare costi e cocci del conflitto ucraino sugli europei; peccato che, al di là delle dichiarazioni surreali dei vertici UE, essi non siano affatto in grado di sostenerli.
Per il pupillo ucraino, fino a ieri blandito, è doccia fredda; brusco ritorno a una realtà che rifiuta perché suona campana a morto per il regime e le sue ambizioni. Per la sua stessa sopravvivenza. Zelensky e la sua cerchia sono prigionieri della narrazione bugiarda con cui hanno spinto un popolo al massacro e fatto di una nazione un buco nero. Ostaggi di una minoranza potente di ultranazionalisti, eredi di banderisti assassini disposti a tutto pur di alimentare le loro fantasie malate. Con questo back groud alle spalle, l’attore-presidente ora gira l’Occidente per vendere un sedicente “piano per la vittoria”, con assai meno applausi e luci della ribalta ad attenderlo. È predestinata vittima sacrificale del volgere della Storia; fino a ieri glorificato perché funzionale ai disegni dell’Egemone, oggi volge a prossimo tracollo (o peggio); solo la claque di Bruxelles, tenacemente avulsa dalla realtà, lo segue. Cioè il nulla.
Per gli USA è partita ormai persa: unico obiettivo residuo è mantenere la crisi aperta per impegnare Mosca il più a lungo possibile. Ed evitare il collasso totale di Kiev prima dell’insediamento della nuova Amministrazione alla Casa Bianca. Se possibile. Ciò che sarà impossibile evitare è sconfitta secca, essa si è già materializzata.
Che ne sarà dell’Ucraina dopo? È la domanda che gli europei per primi dovrebbero porsi, uscendo dalla propaganda di cui sono prigionieri. Uno stato fallito? Certo. Chi lo ricostruirà? Andando per le spicce Trump indica Berlino, esplicitando con rudezza il pensiero di tutto l’establishment USA, ovvero: ci pensino i sudditi europei. E non è il peggio. Lasciare una nazione mutilata, distrutta, inabilitata a rinascere da un’enorme crisi demografica, in mano a una fanatica minoranza eufemisticamente ultranazionalista è viatico certo per una nuova crisi. Ancora più drammatica. Potenzialmente esiziale. Anticamera di irreversibile destabilizzazione dell’area e totale smembramento. Ennesimo capolavoro realizzato dagli USA sulla pelle degli altri popoli.
La parabola del pupillo israeliano: da pilastro a scheggia impazzita
Ma il deflagrare aperto della guerra in Ucraina non è avvenuto nel vuoto, è stato l’inizio ufficiale del conflitto già in atto da anni fra Unipolarismo egemonico v/s resto del mondo, non più disponibile ad assoggettarsi. E il conflitto s’è subito esteso lungo le faglie della contrapposizione fra l’ordine americano e gli altri, in primo luogo in Medio Oriente dove la guerra è già in atto da decenni. A causa della distorta narrazione che il mainstream occidentale fa dei fatti, non ci stancheremo mai di sottolineare che la dinamica principale dei conflitti nella regione è il cozzo fra quanto resta del sistema egemonico americano (con Israele irrinunciabile ma ormai scomodo pilastro), che intende mantenere lo status quo, e la spinta rivoluzionaria dei soggetti uniti nell’Asse della Resistenza che quel sistema intendono eliminare.
Una spinta che, nell’attuale contesto multipolare – più propriamente, policentrico – si è saldata efficacemente quanto sinergicamente con l’azione di altri due poli: Russia e Cina. Con ciò determinando il rapido riposizionamento dei principali stati della regione – in particolare del Golfo Persico – non più partner esclusivi degli USA, e il netto ridimensionamento dell’impronta americana nel quadrante. Preavviso di futura esclusione di Washington dagli affari della regione.
E qui s’impone una notazione necessaria a occhio occidentale: il fatto che la nuova guerra sia scoppiata in Palestina e lì vi abbia mantenuto il focus malgrado riguardi l’intero Medio Oriente non è un caso. Lo abbiamo scritto in altre occasioni e qui lo ribadiamo: la causa palestinese è l’unica a essere trasversale a tutto il mondo arabo, di più, all’intero mondo islamico. Il sangue palestinese in Occidente conta poco, ma comunque qualcosa vale; quello di qualsiasi altra parte del Medio Oriente nulla, e lo si è visto dallo Yemen all’Iraq, dalla Siria all’Afghanistan, oggi in Libano. E, in ogni caso, per la Umma pesa, come pesano i luoghi santi intrisi di quel sangue. A questo punto il dunque.
Quella in corso in Palestina, nel Sud Globale è vista come guerra di liberazione; ultimo conflitto coloniale, percepito tale da chi il colonialismo l’ha subito. E tale è, della peggiore specie, perché Israele, piaccia o no, è l’ultimo regime coloniale al mondo che, schermandosi dietro al macigno della Shoah, pretende impunità totale per i suoi atti quale riparazione dovuta ed eterna. E l’Occidente gliel’ha concessa per lavarsi l’anima, scaricando il peso immane di quel crimine orrendo sui palestinesi, privandoli della loro terra, Storia e cultura, spezzando le loro vite ma non riuscendo a strappargli la dignità, che oggi essi affermano a prezzo del loro sangue.
Al-Aqsa Flood ha ferito profondamente Israele, lo sta logorando molto, ma molto più di quanto mainstream ammetta. Tenta di restaurare una deterrenza in pezzi con violenza cieca ma, ripetiamo ancora una volta, la deterrenza è cosa immateriale, funziona fino a che è percepita tale da coloro su cui è rivolta. Quando è contestata svanisce e Storia insegna che è assai raro possa ritornare: la violenza resta violenza ma non dissuade gli altri dall’azione. Anzi. Quantomeno a occhi mediorientali.
Oggi Israele è scheggia impazzita, non più pilastro USA ma loro fardello, ed essi pagano un prezzo alto, molto alto, per continuare a sostenerlo. Inconsueta mutazione che ha visto il dominus divenire succube del protetto. A dispetto di chi semplifica, non è stato sempre così, tutt’altro. Fino agli anni Settanta Washington ordinava e Tel Aviv obbediva; esempio: nella Guerra dello Yom Kippur, quando finalmente Tsahal era riuscito a circondare la Terza Armata egiziana, Kissinger impose l’immediata cessazione delle ostilità a Golda Meir ed essa fu costretta ad obbedire.
Il radicale mutamento è stato progressivo, determinato da un evento storico e tre fattori: l’evento storico è stato il trionfo della Rivoluzione Islamica in Iran nel 1979, che ha privato gli USA del regime dello Shah, il loro “cane da guardia nel Golfo” (così era chiamato) costringendoli ad affidare quel ruolo a Israele; dei tre fattori due sono arcinoti: la crescente strapotenza dell’Israel Lobby e il permanere dei Neocon, incistati trasversalmente in tutti i gangli del potere americano. Del terzo s’è detto assai meno: il peso determinante acquisito dalle sette evangeliche negli USA (e non solo), divenute di gran lunga il più numeroso e influente movimento religioso che, per sue credenze, è il più acceso sostenitore di Israele. Con ciò realizzando inedita saldatura fra élites (Israel Lobby e Neocon) e pancia del paese, garantendo sostegno incondizionato a qualsiasi prezzo.
E, nel clima tossico, stuzzicando sogni di revival: un nuovo ridisegno del Medio Oriente, come un tempo suggerito all’unisono da Bernard Lewis e Odet Yinon, oggi ripreso ancora dai Neocon americani e, con slancio messianico, da fanatici nazional-religiosi come Bezalel Smotrich. Peccato che il contesto sia sideralmente diverso, perché Al-Aqsa Flood ha mutato il Medio Oriente, segnando discrimine fra prima e dopo. Non orientando verso “normalizzazione” di rapporti fra l’entità sionista e il mondo arabo via cosiddetti “Patti di Abramo”, ma l’inverso. Costringendo gli autocrati della regione ad assecondare gli umori delle folle (esemplare la dichiarazione di Mohammad bin Salman a Blinken: “Dei palestinesi a me non importa nulla, al mio popolo sì. Non voglio fare la fine di Sadat” e spingendo Israele in inedita posizione di stato canaglia dinanzi a vasta, assai vasta parte di mondo.
Dopo un anno, unica speranza di Netanyahu è allargare il conflitto costringendo gli USA a scendere sul campo. Prospettiva attualmente rigettata dalle Agenzie Federali, vere depositarie delle dinamiche americane nel mondo; esse sono disponibili a copertura politica, sostegno economico, rifornimento militare, pieno appoggio d’Intelligence e logistico, tutto, fuorché mettere “boots on the ground”, causa scottanti lezioni del passato e indisponibilità dell’opinione pubblica interna. E riluttanti a fare deflagrare un conflitto regionale dagli esiti imprevedibili, uno solo certo: la chiusura di Ormuz con conseguente shock energetico globale di portata catastrofica. Primariamente per l’Occidente, a seguire per le Petromonarchie del Golfo Persico, non a caso in assai rapido riposizionamento per schivare una guerra con l’Asse della Resistenza.
Al momento per gli USA qualunque mossa è errore; incapaci d’influenzare Israele ne vanno a rimorchio: se stanno immobili è fine di quanto resta della loro credibilità, se scendono in campo entrano per calcoli altrui in una guerra che non sono in grado di sostenere. E li porterebbe ancor più lontani dai loro interessi principali nell’Indo-Pacifico. I suoi avversari guardano e ringraziano l’Egemone che si suicida al fianco di un pupillo impazzito, rincorrendo nuove guerre e suscitando crescente repulsione. Notazione che ne vale parecchie: il suo viscerale arcinemico, l’Iran, oggi non è più solo né assediato: è cresciuto – tanto – e ha sponde potenti; per l’establishment americano pensare di poter tornare di fare paura al mondo colpendolo sarebbe l’errore della vita.
Taiwan: nuovo pupillo dalla dubbia sorte
Frattanto, nell’Indo-Pacifico la tensione monta. È dal 2012 che gli USA si sono resi conto che la Cina ha sì usato strumenti e vie della globalizzazione, ma ha rifiutato l’universalismo e l’imperialismo americano, con ciò rigettando la Geocultura dell’Egemone, tracciando da sé la propria Geostrategia a sostegno di una Geoeconomia protesa su scala planetaria. Irricevibile per chi pensava di usare Pechino per propria convenienza. In realtà la leadership cinese è stata al gioco finché i propri scopi coincidevano con quelli americani, e nel frattempo seguiva la dottrina di Deng Xiaoping, ovvero: “nascondere la luce e coltivare nell’ombra”, crescendo fino a divenire un colosso senza allarmare Washington, anzi, rassicurandolo.
Questo fino al 2013, all’avvento di Xi Jinping, un Taisì, un Principe Rosso, appartenente all’aristocrazia del PCC, orgoglioso di ciò che era divenuta la Cina. Da quel momento Pechino ha reclamato spazio e considerazione coerente alla stazza raggiunta, con ciò suscitando le ire americane e una contrapposizione sempre più dura. Vano tentativo di strozzare la prima economia manifatturiera da cui gli USA e vasta parte del mondo ormai dipendono. Il confronto fra i due pesi massimi mondiali produce reazioni bipolari nella regione; in altra occasione abbiamo sottolineato come i paesi dell’Indo-Pacifico, pur nutrendo inquietudine per le mosse di un colosso alle loro porte, non possono fare a meno dell’economia cinese né del suo mercato; per questo gli USA battono sul tema securitario per introdurre timori fra gli attori dell’area. Come arci-risaputo, il nocciolo è la questione di Taiwan e il controllo del Mar Cinese Meridionale.
Chiariamo il punto che presenta due aspetti. Il primo è culturale, anzi, Geoculturale: per i cinesi – e non per la sola dirigenza – riunire l’isola con la terra ferma significa coronare il Secolo del Riscatto, archiviando definitivamente il Secolo dell’Umiliazione, lunga parentesi fra le vergognose Guerre dell’Oppio e la costituzione della Repubblica Popolare. Non a caso, il traguardo della riunificazione è posto proprio al 2049. E non si tratta di semplice narrazione ufficiale, ma di argomento ormai introiettato in assai vaste fasce della popolazione.
Il secondo aspetto è Geostrategico e Geoeconomico: il Sistema Cina ha bisogno del libero accesso al mare; le materie prime che ne alimentano l’economia e il commercio viaggiano primariamente per il Mar Cinese. Gli USA stanno facendo di tutto per serrare la Cina fra la prima catena di isole e la costa; basta guardare una carta geografica per rendersene conto: dal Giappone, Corea del Sud, Taiwan e giù fino alle Filippine e allo Stretto di Malacca è un susseguirsi di basi americane da cui l’US Navy e l’US Air Force possono rendere alla Cina intransitabili quelle acque ristrette. Per Pechino, avere Taiwan farebbe saltare quella catena che vuole soffocarla, immettendo i suoi traffici direttamente nell’oceano.
Per la dirigenza cinese è di gran lunga preferibile che la riunificazione avvenga pacificamente, ma è ormai partita della vita. In dubbio è quando, non se. Gli USA ne sono consapevoli e non mancano di coltivare il nuovo pupillo, Taiwan. Nel gennaio scorso è stato eletto presidente Lai Ching-te, ma il suo partito, il PPD (Partito Progressista Democratico) non ha vinto le elezioni, perdendo la maggioranza allo Yuan (il parlamento monocamerale). Il 60% degli elettori ha preferito il Kuomintang o il nuovo Partito Popolare Taiwanese che, sia pur con sfumature diverse, vorrebbero un accomodamento con Pechino. In fondo, la sfida riuscita della Resistenza yemenita a Bab el-Mandeb deve aver fatto fischiare le orecchie a molti nel Mar Cinese: se Ansarullah ha messo alla frusta la talassocrazia americana, cosa potrebbe fare la Cina? Massima iattura per gli USA, che stanno facendo ogni sforzo per mettere in piedi forum e piattaforme varie in chiave anticinese (AUKUS, QUAD, etc.).
Elemento cruciale di questa strategia è l’India: gli Stati Uniti puntano su di essa per contenere la Cina, moltiplicano le avances, concessioni, collaborazioni e business; essa ringrazia, incassa e va per la sua strada. Il suo pirotecnico ministro degli Esteri, Jaishankar, già nel 2020 in un libro aveva sintetizzato la politica estera indiana con una frase: “Ingaggiare gli Stati Uniti (leggi: usarli), gestire la Cina (ovvero: evitare che i rapporti volgano a scontro aperto; dopo le asprezze passate, avvisaglie d’appeasement s’intravedono già al vertice BRICS di Kazan), coltivare l’Europa (cioè: prendere à la carte ciò che vi è di utile), rassicurare la Russia (vale a dire: mantenere i rapporti con un partner affidabile negli anni)”. In pratica: fare i propri interessi senza schierarsi mai, lasciando che gli altri la corteggino e prendendo il meglio. Del resto, oltre che obbedire a convenienza, ciò è buon senso: al di là del gran parlare che se ne fa in Occidente, l’India ha numerose criticità, davvero tante, che ne fanno una scommessa di tutt’altro che certa riuscita.
Perché stupirsi? Nel contesto odierno, anche la Cina presenta diverse criticità interne ed esterne, su cui gli USA tentano di premere. La differenza a Pechino la fa una direzione politica forte che indirizza risorse smisurate sugli obiettivi che mette nel mirino con mente fredda. Non solo, questa capacità di fare sistema volge le difficoltà in opportunità; è il caso della guerra tecnologica che Washington fa alla Cina: la necessità di fare a meno della collaborazione occidentale, ha indotto il Sistema Cina a fare massa sulle proprie esigenze e trovare soluzioni, così facendo da acceleratore e non da freno allo sviluppo delle tecnologie avanzate. Esatto opposto che in Occidente, dove le grandi aziende agiscono nell’interesse proprio e non dei sistemi che le ospitano.
In tale contesto è dubbia la sorte del nuovo pupillo americano, in caso di guerra destinato a epicentro di scontro immane, con conseguente distruzione certa. E per inciso: molti decisori americani propendono per la distruzione immediata degli impianti di TSMC, il gioiello della tecnologia taiwanese – e mondiale – in caso di conflitto, per essere sicuri che non cadano in mani cinesi. Ennesima dimostrazione di ciò che intendono gli USA per “amicizia”.
Riflessione: l’allineamento degli Stati Civiltà
L’Egemone non comprende questi tempi di mutamento egemonico, è incapace di interpretarne le dinamiche né capisce le ragioni del declino, reagisce schierando i sudditi per mantenere il trono. Narra di farlo a difesa dei pupilli, patetica menzogna del politicamente corretto: a chiunque abbia occhi per vedere è evidente che è a difesa del proprio impero che si sgretola. Ma le sue azioni – meglio: reazioni – finiscono per unire gli avversari che lui stesso moltiplica e rafforza. È clamorosa la convergenza di Russia e Cina, rivali strategici che hanno naturali interessi contrapposti nella Siberia Orientale, in Asia Centrale, ora nell’Artico, già esclusiva riserva di caccia moscovita dove Pechino intende cacciare. A esse s’è allineato l’Iran storico rivale della Russia, in un rapporto oggi volto a reciproca vicinanza stante la comunanza d’interessi. Addirittura, c’è crescente allineamento con la Turchia – già pilastro della NATO in chiave prima antisovietica poi di contenimento della Russia – che, fiutata l’aria, oggi flirta apertamente con le potenze emergenti. Infine, e clamoroso, c’è la recente e già citata tendenza ad appeasement fra India e Cina, maturata nel nuovo vento che spira.
Sono gli Stati Civiltà che stanno emergendo, è il ritorno delle culture che rigettano l’omologazione della cultura unica occidentale. E Africa e vasta parte di Asia e Sud America convergono verso di loro, rifiutando standard estranei e assoggettamento. S’è visto al 16° Vertice dei BRICS, a Kazan, fra il 22 e il 24 ottobre. I media occidentali l’hanno snobbato ubriacati dalla loro stessa propaganda; non hanno compreso, o meglio, non hanno voluto comprendere un evento che dimostra plasticamente il fallimento dell’Occidente e le menzogne della sua narrazione: la Russia, descritta come il vilain del mondo, è tutto fuorché isolata; la Cina è perno internazionale imprescindibile; è il mondo intero che si volge a Est. Dinamica sintetizzata dal ministro degli Esteri iraniano Araghchi con un twitt: “Il mondo sorge a Oriente e tramonta a Occidente”.
Sono i cardini dell’egemonismo unipolare a essere messi in discussione: a Kazan s’è invocato un nuovo sistema di sicurezza globale in cui non siano gli USA a dettare gli standard, secondo il principio che la sicurezza è indivisibile, o vale per tutti o è finzione. Si è lavorato a nuovi sistemi di pagamento che regolino gli scambi per aggirare il ricatto del sanzionismo americano, con ciò spuntando l’arma primaria di Washington e picconando il dollaro, spinto sul declivio della dedollarizzazione. Si è chiesta una revisione profonda della governance degli organismi internazionali, che archivi il passato e rispecchi il mondo quale è oggi. S’è fatto appello perché cessino le guerre attizzate dall’Egemone per puntellare l’impero. A farlo è stato il Forum di già più vasto, economicamente e demograficamente più rilevante che oggi esista al mondo, alla cui porta bussano decine di paesi per entrarvi (con ogni probabilità, già entro l’anno vi saranno ammesse nazioni come Turchia, Algeria, Indonesia, Vietnam e via discorrendo). È il mondo che si sta riallineando, piaccia o no, su ascisse e coordinate assai diverse da Washington.
Quale futuro per l’Europa?
In questo rivolgimento del mondo qual è il ruolo dell’Europa? Quale la via – se esiste – da imboccare? Prima d’abbozzare risposta vediamo d’intenderci sgombrando il campo da equivoci e trite convinzioni auto-consolatorie. L’Europa, tradizionale bacino dell’Occidente, ha cessato d’essere primattrice della Storia per divenire oggetto di Storia altrui, semplice comparsa nel nuovo Occidente americano a geometria variabile. Dilatato a Occidente Collettivo che si estende a Giappone, Corea, Neo Zelanda, Australia; ossimoro, evidente contraddizione geopolitica del tutto e in tutto funzionale ai disegni dell’Egemone.
Per ragioni analoghe non esiste un’attrice politica chiamata Europa, meno che mai lo è la UE, del tutto impropriamente sovrapposta ad essa; ricordiamo che l’istinto di sopravvivenza che aveva spinto le leadership europee a convergenza è del tutto smarrito e gli attuali establishment hanno perso il contatto con la realtà, semmai gli importi. Il Continente è oggi ridotto a provincia dell’impero americano e, per ulteriore chiarezza, ribadiamo ancora che, con la parziale eccezione della Francia di De Gaulle, in tempi ormai storici, i timidi tentativi di smarcamento condotti negli anni passati da alcuni stati europei avevano basi esclusivamente economiche, privi di radici politiche, per gli USA è stato un gioco soffocarli riconducendo gli stati europei a un’obbedienza spinta all’autolesionismo, utilizzando il contenitore UE per controllarli.
Ciò detto, l’Europa è tutt’altro che un’area omogenea, i soggetti politici che la compongono sono divisi da faglie assai marcate, enfatizzate da input esterni, che si sono moltiplicate negli anni: alla tradizionale partizione nord-sud, di stampo prettamente economicistico, se ne è aggiunta una seconda ovest-est, di stampo marcatamente politico e geopolitico, dunque predominante. Nei tempi odierni, in cui gli USA combattono per mantenere un’egemonia in crescente affanno nelle temperie della Guerra Grande, il focus del Continente si è spostato a nord-est, verso la cintura di stati nordici e dell’est Europa del tutto funzionali al contenimento/contrapposizione con la Russia, in una completa sovrapposizione di ruoli fra NATO e UE. In breve, il driver europeo è passato da Berlino a Varsavia.
In questo contesto, del tutto schiacciato sugli interessi di Washington, il tradizionale fulcro della UE, con i maggiori paesi euro-occidentali, è del tutto scaduto di rilevanza, e il teatro mediterraneo è doppiamente negletto perché assomma la precedente frattura economicista alla presente marginalità del quadrante per gli interessi USA.
È vero che in taluni paesi europei si stanno manifestando tendenze che avversano le attuali derive della UE – e in definitiva anche della NATO – e le recenti elezioni l’hanno mostrato; tuttavia, non riteniamo realistico un complessivo riallineamento del Continente su posizioni autonome e alternative all’oggi, e per almeno due ordini di ragioni. Le formazioni politiche critiche dell’attuale orientamento europeo hanno in genere forti matrici nazionaliste, è assai improbabile che su tali basi possa nascere un coordinamento che vada oltre semplici accordi tattici. I cosiddetti “egoismi nazionali”, connaturati alle parole d’ordine delle rispettive basi elettorali, impediscono solide intese collettive che possano mediare fra interessi diversi. In secondo luogo, gli orientamenti di quelle formazioni nei diversi stati non sono affatto omogenei, vedasi a esempio la forte differenza delle posizioni fra polacchi e magiari.
In ogni caso, le fratture che stanno disarticolando il fronte interno americano hanno da tempo varcato l’Atlantico, debordando in Europa fra le nazioni dell’antico Occidente oggi ridotte a colonie. Con l’anima, anzi, le anime spezzate, occorrerà tempo perché esse possano rielaborare una Geocultura che le unisca. Fattor comune che da oggetti li rifaccia soggetti, capaci di collaborare al di fuori dalla coercizione dell’Egemone. Quanto alla via per far ascendere l’Europa nel suo complesso da stato ectoplasmatico a soggetto politico unico, è al momento invisibile a chi osserva con occhio freddo attenendosi ai fatti.
In definitiva, la mancanza di baricentro politico, l’asservimento a fonti di potere esterne, l’assenza d’interessi complessivi riconosciuti tali da tutti i soggetti politici europei e la mancanza di un comune stare nel mondo che li caratterizzi e indirizzi sono conseguenze della loro carente Geoeconomia e Geostrategia su cui impatta l’inesistenza di Geocultura comune.
In questo quadro desolante, non di correzione di rotta ma di rifondazione si deve semmai parlare. È un percorso dal dubbio esito da intraprendere: esso passa dall’acquisizione di consapevolezza per recuperare l’anima, lo stare nel mondo oggi perso; procede con l’identificazione degli interessi delle nazioni, di ciò che può assicurare loro sopravvivenza e futuro dignitoso, e dovrebbe tracciare la via per raggiungere gli obiettivi. Solo alla luce di ciò è possibile ipotizzare solide convergenze altrimenti impossibili. Quantomeno tendere a esse. Naturalmente è strada lunga, molto lunga, semmai si avrà lucidità per intraprenderla. A chi dal fronte populista scalpita pretendendo soluzioni “semplici” e “immediate” ricordiamo che sono passate tre generazioni abbondanti per giungere al degrado odierno. E ricordiamo pure che nella Storia le scorciatoie non sono contemplate pena disastro ancora maggiore.