La vittoria di Trump esprime la presa di coscienza da parte del popolo statunitense del tramonto del sogno americano. Ma l’eccezionalismo americano non è in discussione: l’America deve tornare a far paura. Il fenomeno migratorio ha assunto una rilevanza di carattere identitario. Tale fenomeno evidenzia il declino del ceppo dominante anglosassone degli WASP. L’obiettivo americano di fondo è quello di destabilizzare l’Iran, condiviso peraltro dai neocon. Ma un’aggressione all’Iran finirebbe per coinvolgere sia la Cina che la Russia. Una guerra commerciale contro la Cina rafforzerà i Brics. l’Europa ha interiorizzato l’americanismo, inteso come subalternità politica e culturale all’impero americano.
Trump ha stravinto: l’America deve tornare a far paura
Trump ha stravinto. Siamo alle soglie dell’avvento di una nuova America? No, la vittoria di Trump rappresenta una fase (prevedibile, ma occultata dal massimalismo ideologico liberal del mainstream europeo), della crisi dell’eccezionalismo americano, cioè della identità stessa degli USA.
Il plebiscito per Trump esprime la presa di coscienza da parte del popolo statunitense del tramonto del sogno americano, scaturito dalla progressiva erosione del primato degli USA nel mondo. Al di là del trionfo trumpiano, permane un conflitto interno tra due diverse visioni dell’America.
L’una, quella dominante ma in declino, è quella dell’America liberal, una visione imperiale, che ha imposto un ordine mondiale unilaterale, che concepisce la globalizzazione economica quale strategia (imposta assai spesso con il ricorso all’aggressione armata), volta alla americanizzazione del mondo. Le sconfitte militari degli USA, congiuntamente al disconoscimento del primato americano da parte delle potenze emergenti (in primis Russia e Cina), hanno segnato il fallimento di tale modello globalista e provocato un senso di frustrazione diffuso nel popolo americano che, con la fine del mito del “destino manifesto”, non si riconoscono più nelle proprie istituzioni.
L’altra, quella trumpiana, è legata alla presa di coscienza del venir meno del ruolo degli USA, quale gendarme del mondo. E’ contraria all’interventismo diretto e concepisce il ritorno degli USA al rango di superpotenza mondiale, mediante il ripristino dei valori etnico – religiosi fondativi dell’America, soppiantati dalle derive ideologiche liberal con la cultura woke, gender, LGTB. Una visione che prefigura un’America proiettata sulle problematiche interne, piuttosto che sull’espansionismo esterno, ma che presuppone la riviviscenza dei valori fondativi in funzione della riconquista del primato americano nel mondo: sono aspetti diversi, ma inscindibili dell’identità americana. L’America di Trump mira al ripristino della deterrenza: l’America deve tornare a far paura.
L’eccezionalismo americano non è in discussione: oggetto del conflitto sono le modalità con cui riaffermarlo. A sostegno della Harris si sono schierati i neocon (già parte integrante dell’establishment di Bush). Ha appoggiato invece Trump il popolo degli evangelici, di matrice veterotestamentaria. Ma è riscontrabile una coerente continuità sia nei programmi economici che nella politica estera tra Biden e Trump. Il sistema neoliberista e la politica di potenza americana nel mondo non sono in discussione.
Uno Scontro delle Civiltà interno negli USA?
Il declino della potenza americana nel mondo è la causa principale della crisi e delle contrapposizioni interne di una società americana afflitta da diseguaglianze sociali, dall’assenza di sicurezza, dalla diffusione a macchia d’olio del Fentanyl tra le giovani generazioni, prive di valori comuni di riferimento.
Il successo di Trump è stato favorito in larga parte dalla rilevanza assunta nel contesto sociale americano dal tema dell’immigrazione. Il fenomeno migratorio ha assunto infatti, oltre che una valenza economico – sociale, anche una rilevanza di carattere identitario. Le migrazioni di masse ispaniche provenienti dal Messico e dall’America centrale, hanno assunto negli anni le dimensioni di un esodo biblico, con l’ingresso negli USA di popolazioni che non si sono integrate, rivelandosi non suscettibili di assimilazione alla società americana, avendo conservato nelle nuove generazioni sia la lingua che la religione cattolica dei paesi d’origine.
Il ceppo americano è dunque soggetto ad una lenta ma progressiva erosione da parte delle popolazioni ispaniche, specie negli stati del sud: è venuto meno il sistema di assimilazione culturale ai valori americani degli immigrati (già dimostratosi efficace con le migrazioni europee), che nei secoli scorsi ha contribuito in misura rilevante alla ascesa degli USA allo status di grande potenza. Tale fenomeno evidenzia il declino del ceppo dominante anglosassone degli WASP e con esso del mito etnico – teologico dell’eccezionalismo americano.
La società americana è vittima di se stessa, del sistema economico e politico neoliberista dalla struttura oligarchica, generatosi dopo la fine della Guerra fredda. Si è imposto un modello elitario chiuso in se stesso, estraneo ai bisogni e agli ideali del popolo, autoreferente, che ha provocato il blocco dell’ascensore sociale: alla governance degli USA si è imposta una classe dominante che ha precluso la mobilità sociale e qualsiasi ricambio generazionale esterno ad essa.
L’America attuale è una società frammentata in una moltitudine di gruppi etnico – culturali diversificati, autoreferenti e privi di valori comuni. I flussi migratori hanno profondamente inciso nella disgregazione di una America già dilaniata da conflitti razziali secolari, generando una società multiculturale in cui è sorta anche la stessa degenerazione ideologica woke, che sta provocando la frammentazione della società in tante minoranze autonome e conflittuali. Una deriva che potrebbe preludere alla disgregazione dello stesso stato unitario.
Gli USA paradossalmente, stanno riproducendo al loro interno quello Scontro delle Civiltà (profetizzato dal libro di Samuel P. Huntington “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”), che costituì nell’era Bush il paradigma ideologico giustificazionista delle guerre contro gli “stati canaglia”.
La crisi di un modello neoliberista irriformabile
La deriva elitaria assunta dagli USA si è resa evidente anche in queste elezioni. E’ infatti falsa l’interpretazione secondo cui il successo di Trump sia scaturito da una rivolta contro le élites. Trattasi semmai di un conflitto interno alle élites stesse, tra quelle trumpiane di Elon Mask e Warren Buffett, contrapposte a quelle del blocco democratico sostenuto dagli altri giganti del web e dai fondi di investimento. Nella politica americana attuale si è realizzato un classismo capovolto: la classe dominante ha sostenuto i democratici, mentre le classi subalterne hanno votato in massa per i repubblicani. Ma a riscuotere i profitti dei vorticosi rialzi della borsa americana verificatisi con l’elezione di Trump sono state le holding finanziarie, non certo le classi disagiate.
Le recenti elezioni presidenziali non hanno dato luogo a contrapposizioni politiche sistemiche, ma hanno semmai evidenziato le contraddizioni interne di un sistema capitalista in crisi.
Dal successo di Trump è emersa la protesta dei ceti medi proletarizzati dalla delocalizzazione industriale, dalle diseguaglianze, dalla erosione del potere d’acquisto dei salari, dovuta all’inflazione del 20% in 4 anni. Eppure l’amministrazione Biden ha conseguito innegabili successi nel campo economico, con l’aumento del Pil, il tasso di disoccupazione ai minimi, i mercati finanziari a livelli record.
Ma alla crescita economica non ha fatto riscontro alcun incremento dei redditi medio – bassi. Identica situazione si era verificata nella prima presidenza Trump, nella fase prepandemica. Il sistema neoliberista, non prevede infatti meccanismi di redistribuzione del reddito e i profitti della crescita restano appannaggio di una ristretta élite finanziaria, a discapito delle masse dei lavoratori, che scontano i disagi della spirale inflattiva. Si evidenziano i fattori di crisi congeniti ad un modello neoliberista rivelatosi irriformabile, le cui degenerazioni coinvolgono l’intero Occidente.
Ucraina: verso la sconfitta della Nato?
Le evoluzioni della politica estera di Trump sono del tutto prevedibili, data la continuità della strategia geopolitica americana affermatasi da Obama in poi.
Per quanto concerne la guerra ucraina, sono innegabili i successi conseguiti dagli USA con la rottura dei legami economici ed energetici tra la UE e la Russia, con la fine della potenza economica tedesca, con l’incorporazione nella Nato di Svezia e Finlandia, con la riconduzione dell’Europa nella sfera del dominio atlantico.
Ma, data la prevedibile sconfitta dell’Ucraina, è ormai difficile per gli USA porre fine ad una guerra con una sconfitta della Nato, che potrebbe produrre effetti destabilizzanti in Europa. Certo è che l’Ucraina non entrerà nella Nato, dato che una eventuale nuova guerra con la Russia comporterebbe l’intervento diretto degli USA, che è a priori escluso.
Del tutto improbabili sono poi le ipotesi di un riavvicinamento tra USA e Russia in funzione anti cinese. Putin è ormai inserito nel contesto geopolitico del mondo multipolare, non è interessato a eventuali nuove alleanze con l’Occidente. Gli USA del resto sono famosi per aver sempre mancato tutte le occasioni favorevoli periodicamente offerte dalla storia.
Medio Oriente: la guerra esistenziale contro l’Iran
Nello scenario mediorientale si rafforzerà invece il sostegno degli USA a Israele. Infatti Netanyahu è stato un accanito sostenitore di Trump. Israele avrebbe quindi mano libera a Gaza, nel Libano e in Siria. Ma con la presidenza Biden, Israele si è comportata forse diversamente?
L’obiettivo americano di fondo è quello di destabilizzare l’Iran, condiviso peraltro dai neocon sostenitori della Harris, la cui volontà di chiudere definitivamente i conti con l’Iran, identificato con l’Asse del male, è ben nota da 20 anni. Tra l’altro, l’Iran è considerato l’anello più debole della lunga catena dei nemici degli USA nei vari scenari di guerra diffusi nel mondo.
Occorre rilevare però che un’aggressione all’Iran finirebbe per coinvolgere sia la Cina che la Russia. Per la Cina la distruzione della Via della Seta comporterebbe il venir meno di un indispensabile snodo commerciale verso l’Europa. Bisogna inoltre tener conto che l’Iran è tra i maggiori partner energetici della Cina. L’Iran infine potrebbe, per ritorsione, chiudere lo stretto di Hormuz, crocevia del traffico del 30% del petrolio del mondo, provocando una crisi energetica globale. L’eventuale destabilizzazione dell’Iran inciderebbe peraltro sulla sicurezza delle aree di influenza strategica russa nell’Asia centrale.
Con una guerra contro l’Iran gli USA potrebbero cadere in una “Trappola di Tucidide” senza via d’uscita, sorta in coincidenza dell’eventuale coinvolgimento nel conflitto mediorientale di Russia e Cina a sostegno dell’Iran stesso.
La guerra mediorientale è esistenziale per USA e Israele così come per tutto l’Occidente. Il ruolo egemonico dell’Occidente può essere riconquistato solo con una vittoria totale assai improbabile e dalle implicazioni imprevedibili. L’Occidente si è incamminato sulla via senza ritorno delle guerre a oltranza. Gli intenti pacifisti di Trump sono del resto poco credibili. La promessa di Trump di “far finire le guerre” presuppone infatti vittorie totali e definitive assai improbabili. La via dell’età dell’oro preannunciata da Trump è come quella dell’inferno: lastricata di buone intenzioni.
La guerra alla Cina rafforzerà i Brics
Il nemico principale da combattere per gli USA resta la Cina. E’ improbabile comunque che il contenimento americano verso la Cina nel Pacifico sfoci in un conflitto bellico, dati gli incalcolabili rischi di un conflitto tra potenze nucleari. E’ altresì riscontrabile la sovraesposizione americana nei vari teatri di guerra nel mondo ed un conflitto con la Cina si rivelerebbe insostenibile.
Resta dunque percorribile la strategia economica dei dazi sull’export cinese, Tuttavia, la politica delle sanzioni (vedi la Russia) e dei dazi si è già dimostrata inefficace. Infatti gli USA oggi si troverebbero a fronteggiare una Cina, la cui potenza economica si avvale del sostegno dello schieramento multipolare dei Brics, estesosi a tutti i continenti.
Una guerra commerciale con la Cina potrebbe contribuire solo a rafforzare il fronte dei Brics, cioè dei nemici dell’Occidente.
Un’Europa nichilista, senza coscienza di sé e senza futuro
L’Europa è contristata e dolente per l’elezione di Trump, irretita dalla prospettiva della politica dei dazi sull’export. Prospettiva preoccupante soprattutto per Germania e Italia, primi esportatori netti europei verso gli USA. Occorre rilevare però che Biden, pur avendo revocato i dazi di Trump, ha consentito l’export europeo per quantitativi limitati: l’effetto penalizzante per l’Europa è stato identico.
Inoltre, dopo la rottura dei legami energetici tra la UE e la Russia, l’Europa importa gas scisto americano ad un prezzo assai più elevato. Certo è che l’Europa con le forniture energetiche americane, ha largamente contribuito a sue spese, alla riduzione del deficit commerciale USA. Con il varo del piano I.R.A. (Inflation Reduction Act del 2022), Biden ha innescato un processo di progressiva deindustrializzazione dell’Europa, incentivando la delocalizzazione delle grandi imprese europee negli USA, attratte dagli incentivi fiscali e dai costi energetici assai ridotti.
La continuità della politica economica tra Biden e Trump è evidente e l’imposizione di ulteriori dazi sull’export europeo non sarà quindi una novità. E l’Europa paga per le sue scelte politiche ed economiche sciagurate. Occorre precisare del resto, che ad innescare la spirale del caro energia in Europa nel periodo post – Covid non è stata la guerra con la Russia, ma la speculazione finanziaria con le quotazioni del prezzo del greggio alla borsa di Amsterdam. L’Europa deve solo compiangere se stessa.
Analogo discorso deve essere fatto riguardo al tema del riarmo europeo, resosi necessario a seguito del disimpegno americano in Europa iniziato con Obama. L’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil prescritto ai paesi europei, si tramuterà in un favoloso business per l’industria degli armamenti americana, non disponendo l’Europa di strutture produttive adeguate. Già oggi le forniture degli armamenti europei sono di provenienza americana per circa l’80%.
L’Europa si sente orfana del protettorato armato USA: quello americano è un colonialismo che perdura in virtù del consenso acquiescente dell’Europa.
Con la fine della guerra russo – ucraina, verrà meno l’unità europea realizzatasi in virtù della emergenza russofobica istigata dalla Nato. Esploderà quindi una crisi interna alla UE, che sfocerà in contrapposizioni isteriche tra i paesi europei tesi a proteggere ognuno i propri interessi, nel tentativo di accaparrarsi la compassione dell’alleato americano da cui ci si sente abbandonati. Ha affermato recentemente Andrea Zhok “Come ricordavo un tempo ai beoti che gioivano per il fatto di essere sotto l’ombrello difensivo della Nato, la realtà è che noi non siamo SOTTO l’ombrello della Nato, noi SIAMO quell’ombrello, il primo a prendersi la pioggia”.
In realtà l’Europa ha interiorizzato l’americanismo, inteso come subalternità politica e culturale all’impero americano. Ne sono la prova evidente i milioni di telespettatori che in Europa hanno seguito in diretta per tutta la notte le elezioni americane: quello americano è riconosciuto nei fatti come il loro presidente. Anzi, è il loro imperatore, acclamato dai sudditi europei, che si rimettono alla sua clemenza.
Opposte fazioni si sono create a sostegno di Trump o della Harris, secondo l’inveterato schematismo di contrapposizione destra/sinistra. Lo stesso scenario politico italiano è polarizzato su due partiti made in USA, siano essi di destra o sinistra.
La Meloni, oltre ad aver accreditato da anni Fratelli d’Italia presso il partito repubblicano americano, alla kermesse di Atreju ha invitato come ospiti d’onore personaggi discutibili come Steve Bannon e inquietanti come Elon Musk, definito dalla Meloni stessa “un valore aggiunto di questo tempo”.
La Schlein, cittadina americana e supporter di Obama alle elezioni presidenziali, è ideologicamente e politicamente allineata con il PD ai liberal democratici americani.
La politica italiana dunque è una riproduzione in salsa nostrana di quella americana. Lo si può constatare dal silenzio assordante da parte del PD, partito di opposizione riguardo alla linea governativa, in tema di privatizzazioni e nella politica estera filoamericana.
Un’Europa afflitta dal venir meno del protettorato USA, in quanto avverte il venir meno della propria dimensione post – storica, può avere un futuro? Nessuna speranza, per una Europa che ha rinnegato la propria identità culturale, dimostrandosi impotente dinanzi al prepotente ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali, in quanto priva della coscienza del proprio essere nel mondo.